Il mio co-bloggista Paolo Pinzuti è portatore di un’opinione molto diffusa a sinistra, che l’automobile privata, simbolo di libertà ma anche simbolo di stato sociale (i Suv), o giocattolo divertente (a molti piace guidare, e apprezzano la privacy che l’auto consente), ma anche fonte di inquinamento, sia l’origine di molti, se non di tutti i mali. Il fatto che il settore sia fonte di reddito ed occupazione richiederebbe addirittura un drastico riorientamento della produzione.
Occorre ricordare che una severa politica contro l’automobile è già in atto da molti anni, con un’elevata tassazione sui veicoli e sui carburanti, e fortissimi sussidi al trasporto pubblico (i maggiori d’Europa). La tassazione sui carburanti è talmente alta da rendere il settore del trasporto stradale quello che “internalizza” di più i costi ambientali, molto di più che l’industria o l’agricoltura.Nonostante questa politica la diffusione dell’auto non si è arrestata, anzi ha continuato fino all’avvento dell’attuale crisi economica. E questo dovrebbe far riflettere sull’utilità sociale di questo modo di muoversi rispetto alle sue alternative.
Va ricordato anche che la maggioranza degli operai italiani va in macchina, perché sta in tanta malora e lavora in tanta malora, mentre impiegati e studenti usano molto di più il trasporto pubblico, recandosi in luoghi centrali ben serviti (e gli unici servibili senza mandare in ulteriore bancarotta lo stato: il trasporto pubblico non può funzionare se la domanda è molto dispersa nello spazio e nel tempo). Si vedano le recenti ricerche del Censis e di Bain&C in proposito.
C’è anche il concreto rischio che le prospettive negative sull’automobile si realizzino, basta che il Pil italiano cali di qualche altro punto (una decina, perché no?) e tutti dovremo andare in autobus. L’ambiente sarà salvo, e forse vivremo felici di agricoltura a km.O. Ma mi sembra lecito dubitarne: il medioevo non mi sembra fosse un periodo particolarmente felice.
Tuttavia osserviamo con un minimo di attenzione i dati che Paolo Pinzuti presenta (e credo molti ambientalisti in buona fede solidarizzino con lui):
“….Al momento il 71% delle risorse pubbliche allocate ai trasporti e alle relative infrastrutture vengono destinate a strade e autostrade, mentre il restante 29% va alle reti ferroviarie emetropolitane. Il risultato di questa politica è sotto gli occhi di tutti: smantellamento delle tratte locali del servizio ferroviario perché meno remunerative , crescente sovraffollamento e obsolescenza dei mezzi pubblici, dipendenza indotta dall’automobile anche per gli spostamenti in città e quindi aumento del traffico, proliferazione di grandi opere che favoriscono esclusivamente i grandi speculatori e le infiltrazioni mafiose…..”.
Sono dati molto discutibili. La ripartizione della spesa pubblica che riporta è certo squilibrata gravemente, ma in favore dei trasporti collettivi, che servono meno del 10% della domanda, e da sempre assorbono una quota di risorse pubbliche molto superiore al loro ruolo. E poi dal punto di vista dell’equità fiscale occorre anche ricordare “chi paga cosa”: il settore stradale versa alle casse pubbliche circa 40 miliardi all’anno in tasse e pedaggi autostradali, mentre il settore dei trasporti collettivi sottrae ad altri servizi sociali (forse più essenziali, chissà) circa 10 miliardi all’anno, che vanno in sussidi.
Anche il concetto che alcune linee ferroviarie siano state chiuse perchè “meno remunerative” lascia perplessi. Le ferrovie non sono mai remunerative: lo Stato, cioè noi, paga sempre tutto o quasi tutto. Le linee a cui accenna hanno pochissimi utenti nonostante i sussidi, e lo Stato spenderebbe meno portando quei viaggiatori gratuitamente in taxi (in alcuni casi, forse in elicottero).
Inoltre le grandi opere a cui accenna sono quasi tutte ferroviarie, basta vedere i dati di spesa. Le autostrade (che pure non amo) richiedono al massimo una quota del 50% di finanziamento pubblico per gli investimenti, le ferrovie sempre il 100% (e a volte di più, visto che per indurre qualcuno a prenderle bisogna che lo Stato, cioè noi, sussidi anche l’esercizio….).
Ma che “in città” occorra ridurre la congestione è giustissimo. Però questo vale nelle città dense, cioè più o meno nei centri storici, dove le macchine non solo non ci stanno fisicamente, ma fanno moltissimi danni alla salute (l’“effetto canyon”), e il trasporto pubblico può funzionare bene. L’area C milanese è un discreto esempio di politica anti-congestione e pro-trasporto pubblico, possibile nell’area più ricca d’Italia.
Peccato che, come si è detto, nei centri storici vivano soprattutto i ricchi, benissimo serviti da trasporti pubblici con tariffe tra le più basse d’Europa.
E quella quota rilevante di operai e cittadini a basso reddito, che si ostinano a viaggiare in macchina e a stare in case in tanta malora perché non possono permettersi localizzazioni ben servite, continueranno a pagare, con le loro tasse sulla benzina, i viaggi con il trasporto pubblico degli impiegati che si recano in centro, e di quelli che in centro possono permettersi di abitare.
Il problema è complicato, perché indubbiamente il trasporto pubblico serve anche una quota di utenti che non possiedono l’automobile, o non la possono usare per ragioni di età. Ma le semplificazioni ideologiche credo che non ci portino lontano.