La frase bipartisan per eccellenza della campagna elettorale e del post-voto è: “Riforma elettorale subito”. Lo ha detto il Pd, lo ha detto il Pdl, il centro di Monti, il Movimento 5 Stelle. Ma tra i partiti che lo urlano ora ci sono quelli che, nell’ultimo anno e mezzo, hanno detto che il “Porcellum” andava cambiato e non l’hanno fatto. “Un imperdonabile fallimento”, come lo definì il capo dello Stato. Eppure da quando il governo tecnico si insediò, la riforma della legge elettorale sembrava dovesse essere l’impegno numero uno per i partiti. “Una nostra prerogativa”, dicevano.

I BUONI AUSPICI – Dopo che a dicembre 2011 la Corte costituzionale boccia il referendum sulla legge elettorale (oltre un milione e 200 mila firme per abrogare il Porcellum), inebriati dalla novità di una maggioranza bipartisan, gli sherpa dell’”Abc” si mettono a lavoro e a marzo sembrano arrivare a un’intesa. Il 27 del mese Alfano, Bersani e Casini annunciano, con un comunicato congiunto, una bozza d’accordo, che oltre alla riduzione del numero dei parlamentari prevede “la restituzione ai cittadini del potere di scelta dei parlamentari; un sistema non più fondato sull’obbligo di coalizione; l’indicazione del candidato premier; una soglia di sbarramento e il diritto di tribuna”. Non si parla esplicitamente però di preferenze, a cui il Pd si oppone, puntando sui collegi uninominali. L’euforia è tanta ma dura poco e si frantuma contro divisioni interne ai partiti che fanno saltare ogni intesa. Poi la campagna per le amministrative a maggio e il risultato con l’exploit del Movimento 5 stelle a Parma, congelano tutto.

Alla fine del mese sono tutti divisi: il Pdl vuole il semi-presidenzialismo e le preferenze; il Pd un sistema francese maggioritario con doppio turno; l’Udc un sistema proporzionale alla tedesca. Lo stallo ha inizio. Giorgio Napolitano il 9 luglio invia una lettera ai presidenti delle due Camere dai toni spazientiti per sollecitare una riforma che definisce “opportuna e non rinviabile”. Tutti chinano il capo e dicono di sì, ma non succede nulla. Anzi, iniziano a darsi battaglia sulle preferenze e sul premio di maggioranza.

EMERGONO LE DIVISIONI – Il Pdl chiede preferenze e premio alla prima lista, la Lega vuole un premio “di governabilità” alla coalizione, il Pd mette in guardia dai “rischi” e dai “costi” delle preferenze (che lieviterebbero in campagna elettorale), pensando invece a collegi uninominali e primarie. Il Pd vuole inoltre un premio alto alla coalizione che arriva prima. La discussione si blocca, nonostante il presidente del Senato, Renato Schifani, acceleri l’iter parlamentare e chieda di lavorare anche il lunedì. In commissione Affari costituzionali a palazzo Madama vengono presentati ben 39 disegni di legge di riforma. Alfano propone: “Se il Pd dice sì alle preferenze, siamo pronti all’intesa”. Gli replica Dario Franceschini, capogruppo Pd alla Camera: “Accettino loro i collegi”.

Si arriva all’autunno. La Lega tenta di mettere tutti d’accordo, presentando una sua proposta di legge di stampo proporzionale che non entusiasma gli animi. Napolitano manda una nuova lettera ai presidenti delle Camere in cui chiede “un’intesa rapida”. Il 10 ottobre, con un ritardo di due mesi (il comitato ristretto si era dato 10 giorni di tempo a luglio per trovare una bozza condivisa) viene votato a maggioranza il testo base su cui iniziare a lavorare: è la proposta di Lucio Malan, del Pdl, che introduce un sistema proporzionale per entrambe le Camere, assegnato su base nazionale alla Camera e con circoscrizionali regionali al Senato. Il testo prevede, sia a Montecitorio che a Palazzo Madama, uno sbarramento al 5% che scende al 4% per chi si coalizza, premio di governabilità al 12,5% da assegnare alla lista e/o alla coalizione che arriva prima, 2/3 delle liste scelte con preferenze. Votano contro Idv e Pd, che inizia a parlare di “blitz” da parte di una “maggioranza spuria” che si concretizza di lì a pochi giorni, quando viene votato (di nuovo unici contrari Pd e Idv) un emendamento presentato da Francesco Rutelli (Api), che inserisce la soglia del 42,5% sopra la quale scatta per la coalizione il premio di maggioranza del 55%. Un norma fatta per “evitare che Grillo prenda il premio”. Parole di Rutelli stesso. Ma che non va bene nemmeno al Pd che a quella soglia non pensa di arrivare insieme a Vendola

AVANZA IL M5S E SI ALLONTANA LA RIFORMA – Da questo momento in poi sembra che, mentre apertamente si danno battaglia, tutti i partiti in privato cerchino soluzioni allo stesso problema: fermare l’avanzata del M5s. E, non riuscendo a trovarla, iniziano a pensare che sia meglio lasciare in vita il Porcellum. “Meglio di una nuova porcata”, dicono in molti. Va in scena un braccio di ferro su questioni di “lana caprina”. Il Pd propone che la soglia per il premio di maggioranza venga abbassata al 40% e sia previsto un premietto del 10% al primo partito. Il centrodestra vuole la soglia al 42,5%. Prova a fare lo sherpa solitario Roberto Calderoli (già autore del Porcellum) che nel giro di due settimane presenta ben quattro proposte, “lodi”. Il 27 novembre si apre uno spiraglio sul quarto lodo Calderoli che prevede di eliminare la soglia del 42,5% e inserire un premio in due ‘scaglioni’, uno sopra il 35% e, in caso di mancato raggiungimento, uno sopra il 25%.

Mentre il presidente Napolitano parla di “gioco degli equivoci, un braccio di ferro ritmato dai ricorrenti e opposti irrigidimenti”, sembra che l’accordo si sia trovato. Ma poi tutto cambia e l’accordo sparisce in dodici ore. Anna Finocchiaro, capogruppo dei senatori del Pd lamenta: “Non si sa più con chi parlare nel Pdl. Uno ti dice una cosa, un altro l’opposto”. La sensazione diventa quasi certezza: nessuno sembra voler ormai cambiare il Porcellum, e sembra che le esitazioni nel Pdl facciano comodo anche a Pd e centristi, preoccupati, in egual misura, dall’avanzata di Grillo. Mentre si danno battaglia su tutto, i partiti votano in commissione Affari costituzionali al Senato, quasi all’unanimità, un emendamento che introduce l’obbligo di statuto per chi si presenta alle elezioni. Obbligo che, come la riforma che non c’è stata, non è stato introdotto. Ma sufficiente a far dire a Beppe Grillo (che lo statuto non ce l’ha): “Ci vogliono tenere fuori”.

A questo punto va in scena quella che Felice Belisario dell’Idv definisce “una pessima fiction”. Tutti discutono, ma nessuno fa nulla. Calderoli sconsolato dice: ”Mi rendo conto di essere rimasto da solo” e poi scherza: “Il maiale può dormire sonni tranquilli”. Il 6 dicembre la commissione Affari costituzionali vota “all’unanimità” lo stop delle riunioni. Poi arriva la crisi di Governo, le dimissioni di Monti, la fretta per portare a termine “i provvedimenti più urgenti”. E la riforma salta. “I partiti sono stati inconcludenti – commenterà a febbraio Monti – avevano da fare una solo riforma. Ma c’è stata una connivenza tra Pd e Pdl per farci votare un’altra volta con il Porcellum”. (VIC)

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