Il Papa lefebvriano no. Più della “pedofilia ecclesiale” è la liturgia ad angosciare in questi giorni di preconclave i 115 cardinali elettori che entreranno nella clausura della Cappella Sistina. Dopo che Benedetto XVI, nel 2007, ha liberalizzato la Messa tridentina, ovvero quella in latino del Concilio di Trento, i porporati amanti del rito post riforma liturgica del Vaticano II, ovvero nelle lingue locali, sono terrorizzati dal ritorno definitivo alla balaustra, al pulpito e al sacerdote che celebra di spalle al popolo con paramenti riesumati dalla naftalina.

Gli oppositori dei cardinali legati al rito “ultratradizionale” preferiscono definire “lefebvriani” i loro confratelli piuttosto che usare la dicitura corretta di “tridentini”. Nelle loro cartelline ufficiose si moltiplicano le fotografie, per lo più scaricate da internet e stampate su semplicissimi fogli A4, dei porporati rivestiti di paramenti “da museo” e intenti a celebrare l’antico rito. “Pensi come sarebbe assistere a un Messa celebrata in questo modo dal Papa”, sussurra un cardinale che rimpiange i paramenti semplicissimi utilizzati da Giovanni Paolo II e la struttura snella e solenne allo stesso tempo delle celebrazioni da lui presiedute sotto l’attenta regia “ecumenica” del suo cerimoniere, monsignor Piero Marini, da Benedetto XVI spedito rapidamente alla guida del Pontificio Comitato per i congressi eucaristici internazionali. A dire il vero per lui il Papa avrebbe preferito una modesta diocesi del centro nord della Penisola, ma Marini optò per rimanere a Roma. Il cerimoniere di Benedetto XVI, anche lui Marini, ma Guido di nome, è calato da Genova a Roma per soddisfare i gusti “da museo” di Joseph Ratzinger: troni altissimi e paramenti di Pio IX rispolverati dalla sagrestia pontificia. I suoi detrattori lo definiscono “un salice piangente” che il nuovo Papa “dovrebbe rispedire in Liguria”.

Alla guida della “squadra” degli amanti della Messa più antiquata che antica c’è il 65enne cardinale arcivescovo di Colombo in Sri Lanka, Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don. Nella sua diocesi, il porporato che ha ricevuto la berretta rossa da Benedetto XVI nel 2010, è un acceso difensore degli abusi liturgici. La sua visione in materia è in piena armonia con il pensiero e gli scritti di Benedetto XVI, che al tema della liturgia ha dedicato il primo tomo della sua opera omnia. Ranjith, allontanato dalla Curia romana dopo nemmeno tre anni trascorsi come segretario aggiunto di Propaganda Fide, all’epoca guidata dal “Papa rosso” Crescenzio Sepe, fu richiamato a Roma da Benedetto XVI, pochi mesi dopo la sua elezione al pontificato, come segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Il record degli abiti cardinalizi rispolverati dai musei lo detiene, però, lo statunitense Raymond Leo Burke, prefetto del Supremo Tribunale della segnatura apostolica. Tutt’altro che allineato ai dieci tecnologici confratelli elettori d’Oltreoceano, le sue foto con chilometrici strascichi di seta rossa moiré sono le più gettonate dai cardinali elettori.

Responsabili e membri dei movimenti laicali e delle congregazioni religiose sono ansiosi di conoscere il volto del nuovo Papa per capire se la loro influenza all’interno dei Sacri Palazzi diminuirà o aumenterà dopo la fumata bianca. Dopo l’idillio perfetto con Giovanni Paolo II, la Comunità di sant’Egidio con il suo fondatore Andrea Riccardi, ministro del governo tecnico di Mario Monti, si prepara ad affrontare una nuova doccia fredda. Con Benedetto XVI e le sue forti perplessità sui meeting interreligiosi organizzati annualmente dal 1987 dall’Onu di Trastevere, gli uomini di Riccardi e del presidente della comunità Marco Impagliazzo si preparano a fronteggiare l’elezione di un Pontefice che potrebbe arginare notevolmente il loro ruolo di mediazione tra confessioni assai diverse, spesso bypassando completamente le gerarchie vaticane incaricate del dialogo ecumenico e interreligioso.

Pregano fiduciosi dentro Comunione e Liberazione, invece. I “figli” di don Luigi Giussani, ben rappresentati sia a Montecitorio che a Palazzo Madama, con l’elezione di Angelo Scola potrebbero essere il primo movimento nella storia della Chiesa ad avere un Papa. I neocatecumenali del pittore spagnolo Kiko Argüello con Benedetto XVI sono andati a nozze. Già prima della sua elezione, l’allora cardinale Ratzinger guardava con favore al loro impegno per la “missio ad gentes” e la nuova evangelizzazione, quest’ultima rivelatasi la chiave di lettura degli otto anni di pontificato di Benedetto XVI. Difficilmente con il nuovo Papa i seguaci di Kiko potranno replicare la stessa benedizione ottenuta dalla Santa Sede, ma sono quelli che hanno di meno da perdere. Nel 2008, infatti, con Ratzinger felicemente regnante, hanno ottenuto l’approvazione definitiva del loro statuto da parte del Pontificio Consiglio per i Laici e nel 2010, da parte dello stesso dicastero vaticano, il placet per il loro “Direttorio catechetico”. Il tutto, ovviamente, con benedizione papale.

I salesiani dalla fine del regno del “premier” di Ratzinger, Tarcisio Bertone, hanno solo da guadagnare. L’immagine del segretario di Stato di Sua Santità e il suo ruolo di potere, esercitato senza la nota raffinatezza diplomatica vaticana in particolare nelle nomine dei vescovi e nello Ior, ha annebbiato la congregazione religiosa fondata da san Giovanni Bosco. E mentre i cappuccini sperano che il papabile con il saio Seán Patrick O’Malley venga eletto nella Sistina e prenda il nome di Francesco I, in onore del santo fondatore del suo ordine religioso, i gesuiti sperano che con il nuovo Papa aumenti il loro peso nel collegio cardinalizio profondamente diminuito con la scomparsa del biblista ed ex Arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini. Del resto, come scriveva nel V secolo san Vincenzo di Lérins, “Dio alcuni Papi li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge”.

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