Sono anni che le Nazioni unite investono quantità enorme di risorse e di lavoro nel Programma di sviluppo umano. Iniziative in tal senso sono partite anche in Europa, nella Francia di Sarkozy. Ma il punto di vista resta sempre quello tradizionale
La felicità come indice di sviluppo. Non c’è bisogno di andare sull’Himalaya a cercare il Butan, Paese di cultura buddista che sull’idea brillante di misurare l’indice medio di felicità al posto del prodotto interno lordo ci ha costruito un’immagine internazionale da vendere nei pacchetti turistici, per trovare un approccio umanamente sostenibile al concetto di sviluppo.
L’idea in realtà esiste, e da tempo, anche in Occidente. Sono anni, per esempio, che le Nazioni unite investono quantità enorme di risorse e di lavoro nel Programma di sviluppo umano. Nel lavoro di diagnosi economico-sociale che precede le proposte di intervento diretto, è dato per scontato che i dati sul prodotto interno lordo e sul reddito pro capite nascondono disuguaglianze sociali e disagi individuali impossibili da ignorare se si vuole fotografare lo stato di sviluppo di un Paese.
Si confrontano con altri dati, dal tasso di alfabetizzazione all’accesso alle possibilita di cura. E’ dal 1990 che il Pnud, il programma delle Nazioni unite per lo sviluppo, pubblica annualmente una radiografia dei Paesi di cui si occupa. Si tratta di cifre che offrono una mappatura del pianeta attraverso Indici di sviluppo umano così fatti. Uno dei Paesi in cui gli indici di benessere si divaricano drammaticamente rispetto ai parametri di sviluppo tradizionali è sempre stata l’India: grande potenza economica emergente in vetta alle classifiche rispetto al Pil, con indici di sviluppo umano sotto il centesimo posto.
Anche in Francia, recentemente, sono stati promossi studi sullo sviluppo economico che abbracciano dati socialmente sensibili. Lo ha fatto un governo di destra. Nicolas Sarkozy, appena eletto, incaricò una commissione di studiosi internazionali di offrirgli un ritratto economico sociale del Paese che avesse il suo centro di gravità ribilanciato sulla percezione del benessere dei cittadini piuttosto che sui dati economici classici. A guidare gli studi fu chiamato il premio nobel statunitense Joseph Stiglitz. I governi del Canada e della Gran Bretagna adottarono poi quella griglia valutativa uscita dal lavoro della commissione direta da Stiglitz per studi sui loro territori.
Anche l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (la Ocde), nel suo dossier “Your better life index” offre uno sguardo sullo sviluppo che va oltre il sacrosanto pil e prende in considerazione almeno altri 11 indicatori per misurare il benessere generale, tra cui la partecipazione politica, l’accesso ai servizi, e addirittura l’equilibrio tra lavoro e vita privata.
Il problema però è che le ricerche si fanno, i dati si analizzano, i convegni lodano il cambiamento possibile di punto di vista sul concetto di sviluppo e poi tutti continuiamo ad occuparsi del pil nudo e crudo. Con buona pace degli indicatori di felicità.