Ebbene sì, l’hanno fatto. E l’hanno fatto, inevitabilmente, con tutta la macabra, ampollosa solennità che le circostanze reclamavano. Mai avari in materia d’enfasi e di servile ossequio nei confronti del gran capo quando quest’ultimo era in vita, gli eredi politici di Hugo Chávez Frías hanno deciso, ora che quest’ultimo è morto, di percorrere fino in fondo (o fino alle più estreme e grottesche conseguenze) i tragicomici sentieri del culto della personalità, regalando al Venezuela ed al mondo un nuovo cadavere imbalsamato: quello, per l’appunto, del medesimo Hugo Chávez Frías, ex presidente ora molto opportunamente elevato, come si conviene a chi è destinato a preservare “in eterno” le proprie umane sembianze, al celestiale rango di “líder supremo de la Revolución Bolivariana”.
Nicolás Maduro – designato delfino del “supremo” e, da venerdì notte (grazie ad una procedura d’assai dubbia legittimità costituzionale) nuovo “presidente incaricato” della Nazione, ha ufficialmente annunciato che il corpo del leader defunto verrà – al termine d’una veglia funebre destinata a protrarsi per almeno un’altra settimana – imbalsamato ed esibito sotto cristallo, in saecula saeculorum, all’interno d’un mausoleo all’uopo allestito in uno degli edifici sacralizzati dalla mistica chavista. Ovvero: nel “Cuartel de la Montaña”, la vecchia caserma (oggi trasformata in “Museo Historico Militar”) situata sulle alture che dominano il quartiere “23 de enero”, dalla quale il colonello Hugo Chávez, il 4 febbraio del 1992, diresse il suo fallito colpo di stato (o, come vuole la versione catechistica, la sua gloriosa “insurrezione”) contro il governo di Carlos Andrés Pérez.
Maduro non ha lasciato alcun dubbio circa le vere radici storico-politico-religiose di tale decisione. Chávez, ha detto, resterà visibile “per sempre”, come già avvenuto per “Lenin, Mao, Ho Chi Min…”. E, mentre sullo sfondo riluceva una gigantografia nella quale un molto intensamente compunto “líder supremo” posava la sua mano sopra un enorme crocifisso, ha senza equivoci inquadrato, nel suo discorso funebre, i pilastri della liturgia che sarà alla base del nuovo culto. Chávez – da Maduro definito il “presidente più vilipeso ed attaccato” della storia dell’umanità – è, come Cristo, insieme “martire” e “redentore”. Martire perché la sua malattia è quasi certamente la conseguenza d’una cospirazione ordita dall’imperialismo. E redentore perché dalle tenebre dell’imperialismo e del neoliberalismo Lui ha riscattato il Suo popolo oppresso. Quella di Chávez, santo ed eroe, martire e redentore, è a tutti gli effetti una religione, una fede. E, come ogni fede, non concede margini di sorta a qualsivoglia sfumatura d’opinione. O si è, senza riserve, parte del culto o, semplicemente, si tradisce la Patria.
Confesso che, pur essendo da sempre un molto convinto critico del culto della personalità senza freni esibito da Hugo Chávez, la cosa mi ha non poco sorpreso. Francamente non mi aspettavo che con tanta naturalezza i custodi del Chávez-pensiero giungessero a profondità nelle quali riescono ormai a navigare, senza imbarazzi o rossori, solo nell’eremitica realtà (curiosamente dimenticata nel discorso di Maduro) della Corea di Kim Il Sung ed eredi. E la cosa mi ha, in effetti, lasciato senza parole. Ma in mio aiuto è fortunatamente sopraggiunto il ricordo d’un vecchio e molto sagace articolo che – dedicato proprio a “el destino de los embalsamados” – Gabriel García Márquez scrisse nel lontano settembre del 1982 per El País di Madrid. Si tratta d’un lungo saggio (troppo lungo per rientrare nei limiti di spazio concessi da “il Fatto” a un singolo post), il cui spunto fu, illo tempore, la notizia, pubblicata dal Jerusalem Post, secondo la quale il corpo di Lenin esposto nel mausoleo della Piazza Rossa non sarebbe stato, in realtà, che una statua di cera. E vale certo la pena riportarne, di questo saggio, almeno il capoverso centrale, quello nella quale Gabo, rammentate le religiose credenze che spiegano la pratica della mummificazione nell’antico Egitto e nella millenaria tradizione cattolica, rileva come, al contrario, sia “molto difficile incontrare una giustificazione dottrinaria per l’analoga e crescente abitudine dei regimi comunisti, che sembrano sempre più confondere il culto degli eroi con il culto delle loro mummie…”. Come, per l’appunto, accaduto per Lenin, Stalin, Mao o Dimitrov in Bulgaria. “E non c’è bisogno d’esser profeti – aggiungeva da par suo l’articolista, che ancora ovviamente non sapeva dell’esistenza dell’appena ventottenne ma già assai promettente Hugo Chávez – per supporre che Kim Il Sung, presidente della Corea del Nord, personaggio totalmente ignaro del dolce incanto della modestia, sia già oggi molto ansioso di sottomettere il suo glorioso corpo ai buoni uffici degli imbalsamatori…”.
Nel chiudere il suo articolo, Gabo non mancava di ricordare, molto opportunamente, anche i “non troppo consolanti precedenti” latinoamericani. Parziali (come quelli dei messicani Antonio López de Santa Ana e Álvaro Obregón che fecero conservare in formaldeide ed esporre, rispettivamente, la gamba ed il braccio perduti in battaglia); o totali, come quello, famosissimo, particolarmente lugubre e tormentato di Evita Perón. Una lista alla quale, tre decenni e passa dopo quell’articolo, occorre oggi aggiungere un nuovo nome. Quello luminoso di Hugo Chávez Frías. Un altro “líder supremo”. Un’altra mummia. Giusto quello di cui la sinistra internazionale aveva bisogno…