Quello che trovo assolutamente insopportabile ogniqualvolta sento qualche politico parlare dell’abolizione delle province (ci è cascato pure Bersani, ultimamente) è che questo discorso nasconde una pigrizia atavica della nostra classe dirigente: quella di riflettere seriamente sul rapporto tra le istituzioni pubbliche (non solo politiche, quindi) ed i cittadini a livello territoriale.
Sinceramente non mi importa più di tanto che aboliscano le province, le regioni, i comuni o le comunità montane: mi interessa invece capire quali sono i meccanismi che portano a determinate decisioni. Vogliamo andare verso un Stato con una struttura altamente decentralizzata, rendendo quanto più possibile capillari i servizi per rispondere in maniera consona alle istanze locali? Oppure vogliamo rafforzare alcuni servizi centrali, anche in un’ottica di minori costi strutturali, considerando anche che lo sviluppo della tecnologia rende spesso meno urgente la prossimità del servizio al territorio?
Ad ognuno la propria opinione e linea di pensiero: quello che però noi cittadini dobbiamo esigere è che lo Stato dichiari la propria filosofia di intervento per il futuro. Perché se andiamo verso la capillarità, allora si può pensare di abolire le regioni e rafforzare invece il ruolo delle province per il coordinamento di alcuni servizi “extra-territoriali” come la sanità, conferendo al contempo ai singoli comuni la gestione di un maggior numero di dossier. Se invece scegliamo la strada inversa, allora via subito le province ed acceleriamo anche sul’idea di creare delle macro-aree comunali che accorpino più municipalità.
Badate bene, il problema non si pone solo per le istituzioni di governo. Prendete la sanità: è possibile che la regionalizzazione del tema porti alcune regioni ad investire sulle cure intermedie e domiciliari, favorendo quindi la migrazione dei pazienti dalle strutture ospedaliere verso gli ambulatori territoriali o le proprie case, mentre al contempo altre regioni operano investimenti operosissimi per creare delle Super Asl, delle Cittadelle della Salute (con a volte pure la Scienza annessa), con milioni di euro impegnati nel mattone? Io vorrei vivere in uno Stato dove, pur nella tutela delle prerogative regionali di attuazione, esista un governo che decida la linea di indirizzo generale per il Paese e dica se bisogna investire sui grandi ospedali o sui piccoli ambulatori nel territorio. Perché altrimenti torniamo ancora una volta al meccanismo della roulette, per cui dipendendo da dove sei nato usufruisci o meno dei servizi.
Lo stesso vale per la scuola: ricordate l’accorpamento delle scuole italiane voluto da Tremonti e sostenuto dal governo Monti, sempre nell’ottica del risparmio di spesa (parliamo di una sessantina di milioni di euro)? Una scuola per rimanere autonoma deve avere almeno 600 iscritti, altrimenti scatta l’accorpamento con una scuola di maggiori dimensioni. Benissimo: poi però, su base regionale sono scattati contratti differenti, proroghe, eccezioni, moratorie etc…Di nuovo, non entro nel merito: chiedo solo che una scelta di questo tipo venga effettuata sulla scorta di un ragionamento di base, che deve considerare certamente le disponibilità economiche e di risorse umane, ma anche l’importanza del garantire l’educazione dei bambini vicino alle loro abitazioni, essendo la scuola il vero iniettore di una rete sociale che i bambini e le loro famiglie poi utilizzano anche fuori dall’orario scolastico.
Fino a quando non avremo la certezza che esiste una politica nazionale unitaria e condivisa sul rapporto tra cittadini, istituzioni e servizi sul territorio, continueremo ad essere vittime di questi slogan politici buttati ai quattro venti in base agli umori del momento.