Il primo condannato è lo stesso uomo che con le sue dichiarazioni ha smontato il puzzle fasullo della strage di via d’Amelio. Arrivano ad una prima verità giudiziaria le nuove indagini sull’eccidio in cui il 19 luglio del 1992 morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi Vincenzo Li Muli Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il giudice per l’udienza preliminare di Caltanissetta Lirio Conti ha infatti condannato a quindici anni di carcere per strage il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, il boss di Brancaccio che nel 2008 aveva raccontato la sua verità sul botto di via d’Amelio. U Tignusu, killer di fiducia dei fratelli Graviano, cinque anni fa aveva deciso di saltare il fosso e collaborare con la magistratura. E le prime dichiarazioni da collaboratore erano proprio su quella strage e su quella Fiat 126, rubata, imbottita di esplosivo e parcheggiata a pochi metri dal numero 21 di via Mariano D’Amelio, dove abita la madre di Paolo Borsellino. Erano quasi le cinque di un’afosa domenica pomeriggio quando un botto spaventoso squarciò l’asfalto della via nel centro di Palermo, facendo strage del giudice e dei cinque ragazzi di scorta.
Di quel massacro e del furto della Fiat 126 si autoaccusò Vincenzo Scarantino, un piccolo malavitoso della Guadagna elevato al rango di boss mafioso da una nota del Sisde di Bruno Contrada. Dichiarazioni fasulle quelle di Scarantino, che nonostante fossero poi state ritrattate sono comunque costate condanne definitive al fine pena mai per Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Giuseppe Urso, Salvatore Profeta e Gaetano Scotto: tutti innocenti, da oltre 15 anni in carcere in regime di 41 bis, tornati liberi soltanto nei mesi scorsi (tranne Scotto che ha altre condanne da scontare).
Il gup Conti ha anche condannato a dieci anni di carcere Fabio Tranchina, l’altro collaboratore di giustizia che con le sue dichiarazioni aveva “avvicinato” la regia della strage a Brancaccio. Dopo una fase preparatoria affidata a Spatuzza, a premere materialmente il telecomando di morte sarebbe stato il boss Giuseppe Graviano appostato dietro un muretto alle spalle di via d’Amelio. Per anni si era indagato su un possibile coinvolgimento dei servizi che avrebbero azionato l’autobomba appostati sul vicino Castello Utveggio: ipotesi a questo punto da scartare. Insieme ai due nuovi collaboratori di giustizia aveva scelto il rito abbreviato anche Salvatore Candura, altro falso pentito che in tandem con Scarantino aveva depistato le indagini sulla strage più oscura degli ultimi anni. A Candura, accusato di calunnia, il gup ha inflitto una pena a dodici anni di carcere. “Questa sentenza dimostra che la nostra tesi accusatoria ha retto. E’ positiva perché sono state accolte tutte le nostre richieste” è stato il commento del procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari.
Il 22 marzo, davanti la corte d’Assise di Caltanissetta comincerà il processo ordinario per il boss mafioso Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, che avrebbero avuto un ruolo importante nella fase preparatoria della strage. Alla sbarra anche lo stesso Scarantino e gli altri falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci che devono rispondere di calunnia.
E se le nuove tessere del puzzle sembrano aver ridisegnato in maniera efficace i ruoli esecutivi della strage, molti interrogativi rimangono ancora aperti. Dai reali motivi che avrebbero portato i poliziotti di Arnaldo La Barbera a depistare le indagini imbeccando Scarantino, alle cointeressenze istituzionali che avrebbero coperto la strage. Per la procura di Palermo il “botto” di via d’Amelio ha una valenza importantissima nella Trattativa Stato – mafia. Borsellino infatti sarebbe stato a conoscenza dei contatti tra pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra e per questo il progetto per assassinarlo sarebbe stato eseguito a tappe forzate, appena due mesi dopo la strage di Capaci. Resta inoltre ancora aperta e senza risposte l’incognita più oscura: la scomparsa dell’Agenda Rossa. Era lì che Borsellino appuntava le informazioni più delicate di cui era a conoscenza. Ma quella che per molti è la scatola nera della seconda Repubblica è svanita nell’inferno di via d’Amelio.