Mano a mano che il neoeletto parla, queste connotazioni positive si confermano e rinforzano: papa Francesco saluta in modo semplice, ordinario («fratelli e sorelle buonasera»); fa ironia sul suo paese d’origine collocandolo alla «fine del mondo», ma ben sapendo che l’inizio sta ormai lì e la fine qui; non si autodefinisce mai Papa ma sempre «vescovo di Roma»; prima di dare la benedizione chiede anzitutto al «popolo» di pregare per il «nostro vescovo emerito Benedetto XVI», di pregare gli uni per gli altri («preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro, preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza») e di pregare per lui («vi chiedo che voi pregate il Signore perché mi benedica»); infine piega la testa in favore di «popolo» e telecamere, unendosi alla preghiera collettiva e quella testa china per 20 lunghi secondi ci pare simbolo di umiltà, capovolgimento delle gerarchie (noi sopra, lui sotto), attenzione agli altri.
Insomma ieri sera gli ingredienti per accendere gli entusiasmi c’erano tutti, via via rinforzati dalla biografia di Jorge Mario Bergoglio che i media rimbalzavano: origini umili, contrario agli sprechi e al lusso, amante del tango e persino fidanzato in gioventù. E non importa che nel suo passato ci siano ombre di collusione con la dittatura argentina, non importa che sia contrario ai matrimoni gay, non importa che abbia avuto relazioni aspre con i Kirchner: umano, gentile, anticasta e rivoluzionario, ecco come ci appare papa Francesco perché è così che lo vogliamo. Ed è così che vorremmo, oggi, non solo lui e ma tutti gli uomini e le donne di potere. Sarà il rinnovamento, sarà la rinascita che tanto desideriamo? Chi lo sa. Una cosa è certa: l’Habemus Papam di ieri è stato un atto di comunicazione splendidamente orchestrato. Finora.