Leggo un lavoro eseguito dal dott. Sergio Costantino, medico del policlinico di Milano, e dalla prof.ssa Marta Barbieri dell’Università Bocconi, sull’eccesso di offerta nelle città come Milano di laboratori di emodinamica che si traduce in bassi volumi di attività e sovrabbondanti sistemi organizzativi nelle 24 ore  in attesa dei pazienti da trattare (valore medio per notte stimato di 0.09 paziente  per ogni centro attivo).
I numeri totali riportati (anno 2009) per molti centri (7 su 12)  sono distanti dai limiti indicati dal GISE (Gruppo Italiano Studi Emodinamici) come standard. E’ paradossale che sette centri tutti insieme raggiungano circa l’80% dell’attività programmata, in questa analisi tra i primi 5, come volumi di attività, ci sono  3 laboratori di strutture private convenzionate ed accreditate e 2 ospedali pubblici.

Analizzando il tipo di attività a seconda dell’appartenenza o meno al pubblico si può agevolmente notare come le procedure d’urgenza siano effettuate prevalentemente nei laboratori pubblici  (61 contro 39%)  ed ovviamente all’opposto per l’attività programmabile (35 contro 65 %). Le prime 5  emodinamiche (per volume di attività) assorbono il 74%  dei casi totali (contro il 26%  delle 7 rimanenti). Chiunque di noi fosse  proprietario dei 7 laboratori che  avessero risultati numericamente minori, pur rappresentando costi importanti, credo farebbe qualcosa per migliorare la situazione, ancor di più se fosse il proprietario di tutti e 12 i centri. Perché, in un momento di forte recessione economica non si può avere una oculata attenzione per la spesa  che viene fatta con  i soldi pubblici, i nostri soldi? 

Lo chiedo al dott. Sergio Costantino: “Ovviamente in Sanità, nella buona sanità, la soluzione ottimale nel commercio di incrementare le prestazioni (indipendentemente dall’epidemiologia ovvero dalle reali necessità di quel dato contesto sociale e territoriale) diviene facilmente antietica se non nel caso di accoglienza di pazienti provenienti da altre regioni in cui sia meno facile ottenere la stesse prestazione in tempi ed a costi ragionevoli (per le  liste d’attesa per esempio); quindi l’unica possibilità risiede, oltre a quella drastica di ritirare l’accreditamento del centro e farlo sostanzialmente chiudere, nel valutare l’opportunità di lavorare in macroequipes che oltrepassino i confini dell’ospedale azienda superando un modello che ritengo, nel bilancio costi benefici, essere stato più deleterio che utile. 
Questa dispersione e sovrabbondanza può in parte giustificare il dato del maggior costo medio della terapia dell’infarto che a parità di cure è stato valutato, per ogni singolo caso, circa 1850 euro in più rispetto all’Olanda (ovviamente il dato italiano è un dato medio e quindi non esprime a pieno le varie realtà regionali ma è comunque assai significativo). Riuscendo a contenere i costi, in media e sul numero di ricoveri per infarto negli ospedali lombardi, sui valori olandesi significherebbe ottenere un risparmio teorico di 4 milioni e 600 mila euro a Milano e di 36 milioni e 600 mila euro in regione (pari a circa il 2% del fondo regionale per la sanità) senza incidere sulla qualità delle cure. Il paradosso è che chi abbia tentato di segnalare il problema ha subito un attacco che, pur  non avendo misura dei dati reali, fanno derivare semplicisticamente dall’ipotesi di riduzione numerica dei centri un sicuro indice di peggioramento del servizio ed un attacco al SSN”.

Anch’io credo che avere un minor numero di centri specialistici, in qualunque specialità, possa far migliorare in toto la qualità con l’aiuto e la professionalità dei medici coinvolti predisponendo, nei casi necessari, un trasporto interospedaliero protetto. Speriamo che il nuovo assessore alla Sanità ed il nuovo Direttore Generale che tra qualche giorno si insedieranno in Regione Lombardia possano pensare di più alla salute del paziente che all’apertura di nuove strutture solo per trovare possibilità di fondi illeciti in cui i numeri clinici bassi non garantiscono la qualità della cura. 

 

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