Londra e Parigi hanno deciso per lo strappo: inizieranno ad armare i ribelli antigovernativi in Siria, nonostante il parere contrario di molti paesi dell’Ue, a partire dalla Germania. La decisione delle due cancellerie è stata presa in vista della scadenza, a fine marzo, del divieto Ue di aiutare militarmente le forze, varie ed eterogenee, che si oppongono al governo di Damasco. E per quanto manchino ancora i dettagli di come esattamente Regno Unito e Francia intendano procedere, la Coalizione Nazionale Siriana (CNS) il principale gruppo di opposizione, ha reagito molto positivamente. “Consideriamo questo un passo nella giusta direzione, Assad non accetterà una soluzione politica al conflitto fintanto che non si renderà conto di avere di fronte una capacità militare in grado di sconfiggerlo”, ha detto all’Agence France Presse Walid al-Bunni, uno dei portavoce del CNS.
La possibilità di avere il consenso degli altri paesi dell’Unione non è comunque del tutto svanita, almeno stando a quanto ha detto il premier britannico David Cameron che ha detto di “sperare di poter convincere gli altri paesi europei”. Se ciò non accadesse, comunque, Francia e Gran Bretagna faranno da sole: “E’ nostro dovere aiutare la Coalizione, il Free Syria Army e i loro leader con tutti i mezzi necessari”, ha detto il ministro degli esteri francese Laurent Fabius al quotidiano Liberation.
Il problema principale è capire chi armare, nella galassia variegata dei gruppi anti-Assad. Se due anni fa, quando sono iniziate le prime manifestazioni pacifiche contro il regime, degenerate poi nella guerra civile ancora in corso, era più facile decifrare la geografia politica interna siriana, oggi, con la rapida ascesa dei movimenti jihadisti e islamisti tra le frange armate dell’opposizione, è tutto più difficile. Sono questi ultimi infatti praticamente gli unici a ricevere denaro ed armi, soprattutto dai paesi del Golfo e dall’Arabia Saudita. La decisione anglo-francese, se da un lato cerca di riequilibrare le forze all’interno dell’opposizione, rischia anche di dare la stura a scontri incrociati tra le fazioni anti-Assad, molto meno unificate di quanto il comando del FSA voglia far credere.
Secondo quanto ha scritto l’agenzia Reuters, le armi per i ribelli non sono le uniche che arrivano nel paese. Citando fonti diplomatiche occidentali, la Reuters ha scritto che l’Iran avrebbe aumentato il proprio appoggio militare al governo di Damasco, facendo passare armi attraverso l’Iraq ma anche attraverso il Libano. Una ricostruzione che è stata smentita sia dal governo libanese che da quello iracheno. Nell’appoggio al governo di Bashar Assad sarebbero coinvolte anche le milizie sciite di Hezbollah, il partito sciita libanese, che solo poche settimane fa è stato accusato dalla Coalizione nazionale siriana di aver mandato suoi combattenti ad appoggiare le truppe di Assad. Il governo di Teheran ha affidato la smentita al portavoce della sua delegazione all’Onu Alireza Miryousefi: “Non crediamo che il governo siriano abbia bisogno di aiuti militari”, ha detto il diplomatico.
Si avvicina intanto il secondo anniversario dell’inizio della rivolta in Siria e la situazione nel paese è sempre più drammatica. Nel rapporto diffuso ieri da Save the Children, si legge che circa 2 milioni di bambini in Siria sono esposti a malnutrizione, maltrattamenti, violenza e traumi causati dal conflitto. Secondo un’altra ricerca, condotta dall’università turca di Bahcesehir, un bambino su tre, tra quelli raccolti nei campi profughi, ha subito violenze. Le condizioni nei campi profughi, aggiunge il rapporto di Save the Children, sono molto dure: scuole chiuse, pessime condizioni igieniche e spesso anche scarse razioni alimentari, in assenza di un più massiccio sforzo internazionale di soccorso.
Un rapporto diffuso oggi da Amnesty International completa il quadro: “La nostra ricerca dimostra che, per quanto la grande maggioranza degli abusi e dei crimini di guerra venga commessa dalle forze governative, c’è una escalation di abusi da parte dei gruppi armati dell’opposizione”, ha detto presentando il rapporto Ann Harrison, vice direttrice della sezione di Amnesty che si occupa di Medio Oriente e Nord Africa. “Senza una reazione queste pratiche rischiano di diventare sempre più abituali – ha aggiunto Harrison – E’ imperativo che tutte le parti in causa sappiano che saranno considerate responsabili per la loro condotta”.
A due anni dall’inizio del conflitto, dopo almeno 70mila morti e un milione di rifugiati, la mediazione affidata all’inviato speciale dell’Onu e della Lega Araba Lakhdar Brahimi è ormai spenta. Al diplomatico algerino non è rimasto che ripetere, pochi giorni fa, che la Siria rischia di diventare una nuova Somalia. Il suo allarme, però, è caduto nel vuoto.
di Joseph Zarlingo