Roberto Saviano continua a sorprendersi del fatto che, se scrivi un libro contro la mafia – magari un libro che ha avuto uno straordinario successo di pubblico e ha inferto un duro colpo alla criminalità organizzata – la mafia ce l’ha poi con te e cerca di fartela pagare, impegnando lo Stato a difenderti e costringendo te a vivere sotto scorta. A Saviano succede dal 2006, da quando aveva 27 anni. Ma continua a ribellarsi, in ogni articolo che fa, per questa vita di semi-segregazione.
Lo ha fatto ancora una volta su Repubblica, segnalando meritoriamente al suo pubblico il libro nel quale Giovanni Tizian racconta la sua storia di “ragazzo meridionale cresciuto al Nord e finisce col mostrare come Sud e Nord non siano affatto mondi separati, ma aspetti complementari della stessa tragedia. Come le organizzazioni criminali costituiscano, più delle autostrade, più della lingua comune, più della comune appartenenza a un’unica nazione, il vero tratto unificatore tra due mondi”.
Saviano coglie l’occasione per ricordare che “una vita vissuta sotto protezione militare è una vita che non ti appartiene più, che smette di essere tua. Eppure sembrano pochi ad accorgersene. Diventa necessario chiedere il permesso, avvisare in anticipo su qualunque spostamento, anche minimo. Devi essere autorizzato a entrare in un ristorante, persino in un bar a bere un bicchier d’acqua se ti viene sete all’improvviso”.
Il titolo che Tizian ha scelto per il suo libro autobiografico sembra testimoniare l’acquisita, amara consapevolezza che “La nostra guerra non è mai finita“, che se decidi di non abbassare la testa e la schiena davanti ai soprusi della ‘ndrangheta o della camorra o della mafia devi anche aspettarti che essa ti inseguirà ovunque per fartela pagare, e comunque il minimo che ti potrà capitare è di dover vivere sotto scorta, e di avere qualche problema anche quando decidi di andare al ristorante o hai bisogno di entrare in un bar per un po’ d’acqua.
Saviano, animato da una formidabile moralità (lo scrittore coraggioso che denuncia la mafia sta dalla parte giusta e la mafia da quella sbagliata), non smette mai di rivendicare il diritto di Saviano – e di quanti come lui combattono con la penna le organizzazioni criminali – a vivere in pace, senza bisogno di scorta. No, sembra gridare, la “guerra” fra chi scrive contro la mafia e la mafia stessa non dovrebbe manco iniziare, lo Stato non dovrebbe nemmeno avere bisogno di mettere sotto scorta lo scrittore o giornalista e questi deve poter vivere una normale quotidianità!
E invece Saviano, non solo deve sopportare quotidianamente, da sette anni, restrizioni e controlli che gli impediscono di vivere normalmente anche le cose più banali, ma “da quando vivo sotto scorta ho incontrato molte persone nella mia stessa condizione e per ognuno di loro ho sentito che la mia sofferenza si moltiplicava”.
Si può dire che Saviano, ammirabile scrittore anti-camorra, sbaglia a lamentarsi della scorta e delle altre misure di protezione che lo Stato ha assunto per difenderlo da chi gli vuol male e gliel’ha giurata? In definitiva è lui che un giorno ha deciso di scrivere Gomorra e di farlo così bene da diventare un obiettivo per la camorra. Se fai Gomorra, devi ragionevolmente aspettarti che i casalesi te la vogliano far pagare. Del resto, proprio questo dimostra che hai fatto un lavoro splendido e un’opera altamente meritoria. Se non avessi fatto quel libro così efficace e di successo, e firmato invece un libro esangue e marginale, non avresti vissuto pericoli e subìto la scorta, ma nemmeno avresti inferto un colpo mortale ai casalesi, e non avresti acquisito successo, prestigio e generale, mondiale considerazione…
Si può dire però che è certamente segno di pur comprensibile confusione quello che Saviano ha scritto proprio in apertura della sua “recensione” al libro di Tizian, passando dalla comprensibile rabbia per il suo stato di scortato alla denuncia nientemeno che della democrazia italiana: “Spesso mi chiedo se può essere definito democratico un Paese dove chi scrive, chi racconta, finisce sotto protezione. Costretto a vivere circondato da carabinieri, poliziotti o finanzieri…”. Concetto rafforzato nella chiusura dell’articolo: “Fino a quando si continuerà a vivere circondati da persone armate solo per ciò che si è scritto e detto, non riesco a definire il mio Paese una democrazia”.
Che c’entra la democrazia? E non è appunto lo Stato democratico che lo difende dalla criminalità?
E’ nobile e doveroso – come fa con coerenza e tenacia Saviano – documentare e condannare le malefatte e le manchevolezze di chi, anche dall’interno delle istituzioni, non fa il proprio dovere per rimuovere le condizioni che consentono alla criminalità di mettere le radici e di svilupparsi, arrivando in molti casi al favoreggiamento e alla connivenza con essa.
Ma è uno Stato in cui chi scrive (e per questo diviene un obiettivo della criminalità) non venga adeguatamente protetto che non può essere definito democratico.