La nostra guerra non è mai finita è il titolo del volume edito da Mondadori dove tra forma diaristica e spunto d'inchiesta si ripercorrono i legami tra la criminalità organizzata calabrese e l'Emilia Romagna, tra Bovalino e Modena, dai sequestri di persona fino alle minacce di morte subite: "A quello gli spariamo in bocca"
Il metro diaristico alternato a quello del giornalismo che indaga la ‘ndrangheta. Un padre assassinato da killer rimasti ignoti e un figlio che, divenuto adulto, entra nel mirino dei padrini a causa delle sue cronache, troppo addentro agli affari dei boss al nord. La Calabria e l’Emilia Romagna, Bovalino e Modena. Tutti questi elementi sono presenti ne “La nostra guerra non è mai finita”, in questi giorni in libreria per Mondadori, scritto da Giovanni Tizian, il giornalista a cui gli ‘ndraghetisti volevano “sparare in bocca” e per questo messo sotto scorta.
L’infanzia all’ombra dell’occupazione militare. Per cominciare il viaggio intrapreso dall’autore, occorre fare un salto indietro di 3 decenni. Inizio degli anni Ottanta, l’Anonima sequestri miete azioni, deporta vittime di rapimenti e raccoglie riscatti. È quel passaggio nella storia della mafia calabrese che, iniziata 150 anni prima, ha rappresentato una tappa sulla lenta ma inarrestabile via della mondializzazione. “I sequestri di persona sono stati per i clan della Locride quello che la catena di montaggio è stata per il capitalismo”, scrive Tizian raccontando dei 400 miliardi di lire accumulati, di cui la metà andata ai boss dell’Aspromonte.
Era allora come oggi una lotta tra Stato che schierava l’esercito e antistato. Una lotta impari perché, di fronte alla minaccia delle armi e della caccia all’uomo, si opponeva la risolutezza dei mafiosi, la conoscenza del territorio e il suggello dell’omertà. Così i militari mandati da Roma e assiepati nell’hotel Orsa di Bovalino diventavano una presenza intimidente per i bambini che giocavano a pallone poche distante. “Vivevamo nella paura senza sapere quale fosse il vero nemico”, racconta l’autore rievocando le immagini di sé bambino che ancora non comprende, almeno a livello cosciente, che “quella poliziesca è stata solo la conseguenza di un’occupazione ben più corrosiva da parte di un’organizzazione che oggi è ramificata in tutto il mondo”.
In morte di un “funzionario integerrimo” e la dimensione dell’emigrante. Già la paura di cui il giornalista parla aveva invaso la sua famiglia quando il no al pizzo era valso la distruzione del mobilificio dei nonni. Ma il 23 ottobre 1989 sarà il giorno del non ritorno. Il non ritorno definitivo di Giuseppe Tizian, il padre di Giovanni. Era “un funzionario integerrimo (lavorava per la filiale di Locri del Monte dei Paschi di Siena, ndr), una brava persona, limpida e senza ombre, tanto da non consentirci di rintracciare indizi dai quali partire per risolvere il caso”, dissero gli investigatori che si occuparono di un omicidio rimasto senza colpevoli.
E in senso più figurato, quasi un destino che esiste davvero, fu il giorno del non ritorno anche del figlio, che dopo l’esecuzione di Giuseppe viene preso dalla giovane madre e portato al nord, a Modena, la città da cui ricominciare. Nel 1993, dunque, diventavano anche loro emigranti, con le loro “storie sempre tristi” che “nascondono pochi segreti, tante paure e lunghe nostalgie”. Forse anche per questo, oltre che per riscoprire la propria memoria, Giovanni Tizian, divenuto uomo, si presenta al tribunale di Locri e chiede di poter avere accesso al fascicolo sul delitto del padre, archiviato 21 mesi dopo l’agguato, nel 1991. Attende due anni che la burocrazia gli faccia strada e lì, in quelle carte, tra quegli indizi trascurati, scopre la dimensione della vittima della criminalità organizzata, condannata all’oblio perché di certe storie è meglio non parlarne più.
Rompere i codici del silenzio. Questa è una legge non scritta, ma solida come se fosse scolpita sulla pietra. Tuttavia il giovane giornalista non l’accetta e, ormai consapevole che non c’è differenza tra nord e sud, che il crimine è radicato tanto nel mezzogiorno quanto nel settentrione, si “arma” di blocchetto per gli appunti e biro. E scrive. Scrive da precario per testate locali e nazionali, scrive “Gotica”, il libro su quella la linea che non divide più, come negli anni della seconda guerra mondiale, ma che viene attraversata dalle organizzazioni criminali, non solo dalla ‘ndrangheta, per “salire” e gestire, arricchirsi, ripulire tasche e volti.
Giovanni Tizian scrive al punto che ciò che accade – le minacce, la vita blindata, la scorta – è cronaca che decolla a partire dal 20 dicembre 2011 e che arriva a una svolta 13 mesi dopo, con l’arresto del boss delle slot machine Nicola Femia. Quindi “chi opera in terra di ‘ndrangheta, sa che ci sono regole non scritte da rispettare”, scrive ancora l’autore. “E dopo avermi rubato l’infanzia, voleva portarmi via anche il presente, la libertà e – adesso lo so – la vita. Ma la voce delle vittime innocenti è troppo forte. Allora ho ripercorso trent’anni di storia della mia famiglia e della ‘ndrangheta moderna per scrivere di una guerra lunga tre generazioni, e mai finita”.