Mignon di Massimo Alì Mohammad è interamente girato tra le mura del cinema a luci rosse ancora in attività nel centro di Ferrara. "E' un pubblico di appassionati, lì ci si va ancora per socializzare, ma chi passa gira alla larga e finge che non esista". L'opera in sei sale dell'Emilia Romagna grazie a Doc in Tour
Basta vedere il trailer di Mignon, il documentario che Massimo Alì Mohammad ha girato sulla sala cinematografica a luci rosse di Ferrara ancora in attività, per capire quale cilindro da illusionista e amante della settima arte si porta dietro dalla natia Napoli al capoluogo estense.
La celebre sequenza accelerata di Arancia Meccanica con tappeto sonoro di Beethoven acquista devastante vigore anche nella presentazione altrettanto accelerata tutta simboli, foto, frammenti di pellicola, facce e spazi del girato che grazie all’iniziativa Doc in Tour, e dopo l’anteprima all’Edison di Parma, sarà proiettato in sei sale dell’Emilia Romagna: Rosebud – Reggio Emilia il 27 marzo; Snaporaz – Cattolica il 31 marzo; Boldini – Ferrara il 10 aprile; centro culturale Te.Ze – Bentivoglio (Bo) il 4 maggio; Truffaut – Modena l’8 maggio; Saffi – Forlì il 20 maggio.
“Fuori l’insegna blu al neon, dentro gli spazi ben tenuti di una chiesa sconsacrata”, spiega al Il Fatto Quotidiano Emilia Romagna, Massimo Alì Mohammad, classe ’83, già menzione speciale al festival di Torino per il corto La nonna, “quando giunsi a Ferrara nel 2009 mi imbattei proprio in questo edificio in Via San Pietro e pensai che era un dovere sacrosanto girare un documentario su questa sala. Pensai: qua dentro è racchiuso un segreto, la morale dell’oggi. In epoca di scandali sessuali come Berlusconi con le escort, mi chiesi: come si parlerà di erotismo? C’è spazio per un erotismo sano, com’era un tempo, quando la pornografia era qualcosa di rivoluzionario opposta la potere politico? Chi va a vedere i film porno in sala nell’epoca di dvd e internet?”
Risposte ne hai trovate?
“Una risposta l’ho trovata. Il Mignon è frequentato da persone di una sensibilità estrema. Si va lì per incontrarsi e socializzare. Ci si dà anche appuntamento al cinema. E’ un pubblico di appassionati”.
Che tipo di film vengono proiettati al Mignon?
“Utilizzano di base vecchie pellicole anni settanta, ottanta e qualche kolossal porno dei primi anni novanta. Per far riposare il proiettore alternano con qualche proiezione più moderna in dvd. Tra le pellicole talvolta sbucano titoli dell’erotismo d’autore come La bestia di Borowczyk o Possession di Zulawski. Una volta ho rovistato tra gli scarti dei tagli di pellicola che hanno in magazzino e ho trovato straordinari fotogrammi non hard di film porno. C’è n’è uno che ancora conservo: quattro donne sconosciute e sorridenti che guardano in macchina.”
Protagonisti di Mignon, il documentario?
“Le tre persone che ci lavorano, il geometra che lo trasformò da magazzino in sala cinematografica, l’ex direttore che oggi dirige una multisala, ma che negli anni settanta organizzava rassegne su Pasolini”.
Dicevi del porno come qualcosa di rivoluzionario opposto al sistema…
“Sì, e per certi versi è ancora così. Il Mignon è sotto gli occhi di tutti i ferraresi, ma fanno finta che non ci sia. Pensano sia qualcosa di destinato a chiudere, ci girano al largo”.
A proposito di porno rivoluzionario, Le pornographe di Bertrand Bonello l’hai visto?
“Sì, magnifico. Ricordo una scena esplicita di sesso, decadente, triste, deprimente. Il protagonista, un regista di porno anni settanta su un set di oggi, era come diventato incapace di comunicare con l’arte che aveva creato e perfino col figlio. Anche Boogie Nights racconta questo, anche se in modo più eroico. Ad ogni modo al Mignon volevo trovare qualcosa di ancora attuale: la gioia, il divertimento, quel gusto di erotismo primigenio, che rimane sfacciato”.
C’è tanta pellicola nel documentario, ma tu giri in digitale: hai mai avuto voglia di qualche inserito in celluloide?
“Oggi gli inserti in Super8 sono diventati modaioli. Volevo un documentario semplice, senza troppa sperimentazione formale: interviste frontali, giornali d’epoca, inquadrature semplici”.
Budget?
“Irrisorio. L’ho girato nei ritagli di tempo. Mi hanno aiutato alcune associazioni amiche per trovare attrezzature e microfoni di qualità, poi ho montato il film nell’ufficio cinema del comune di Ferrara”.
Nostalgia per il surrealismo del tuo corto La Nonna? (qui il film sul web)
“Sul documentario avevo parecchi pregiudizi, non lo vedevo gareggiare con il cinema. Poi ci sono stati i documentari di Herzog e lentamente ho compreso che col documentario si può fare cinema con la realtà. Mi spiego meglio: credo che il documentario negli ultimi anni si sia troppo spesso legato a certi stereotipi che l’hanno stilizzato e gli hanno fatto perdere il gusto, che so, della semplicità di una confessione di un essere umano che parla. Pensa che io ora sto preparando un nuovo documentario sugli artigiani di Ferrara che lavorano la materia in modo particolare. Ho focalizzato il mio sguardo sulle mani che lavorano, sugli oggetti che costellano i loro negozi e ho scoperto che era la stessa ricerca di stile e di senso che facevo con La Nonna”.
Il cinema d’essai a Ferrara si riesce ancora a vedere?
“Le sale ci sono, per fortuna. E come cinefilo posso spaziare. Io vado a vedere anche i film con iu supereroi, le commedia americane, come il cinema asiatico estremo. Alcuni episodi della saga di Harry Potter sono di qualità, come anche una buona commedia adolescenziale Usa. In fondo mi sembra che ci siamo troppo chiusi sul cinema d’autore”.
Insomma, l’autorialità non esiste più o esiste in modo diverso da come ce l’hanno descritta i Cahiers?
“Mi spiego con un esempio per farmi capire meglio. Ieri ho litigato con un amico per Ghost. A lui faceva schifo e io gli ho detto che c’è almeno una soluzione visiva da ricordare e non proprio commerciale: il film inizia con un quadro nero che lentamente si apre fino a fare entrare completamente luce. Altro esempio da cinema anni ottanta è Flashdance. Insomma riscopriamo Adrian Lyne, ma anche Mizoguchi”.
Il tuo prossimo lavoro sarà un documentario o un film di fiction?
“Mio padre è pakistano e vuole tornare da tempo in Pakistan. Vorrei girare un diario intimo che documenta questo viaggio e che parli del rapporto con la figura paterna: cosa sente vicino e lontano di questo paese. Sembra autoreferenziale, ma vorrei con umiltà essere capace di parlarne al pubblico che lo guarderà”.