Il capo della polizia deceduto al San Giovanni di Roma. Negli anni Ottanta fece parte della "squadra" di Falcone, con De Gennaro, Pansa e Cassarà. Grazie a loro i primi pentiti aprirono una breccia in Cosa nostra. Arrivato al vertice della pubblica sicurezza nel 2007, non sconfessò il suo predecessore, ma si diede da fare per ricostruire l'immagine degli uomini in divisa
Era un investigatore “di razza”, e a testimoniarlo c’e’ un’immagine indelebile nella memoria di chi c’era: occhiali scuri e blazer blu, il pentito Buscetta entra nell’aula bunker del maxiprocesso di Palermo accompagnato da un giovane funzionario di polizia, Antonio Manganelli. Era il 1986, per Cosa Nostra militare fu l’inizio della fine e i colpi decisivi, prima ancora delle accuse dei pentiti, vennero inferti dalla squadra di funzionari della Criminalpol inviati da Roma a sostegno delle indagini condotte da Giovanni Falcone e poi sfociate nel maxiprocesso a Cosa Nostra. Buscetta aveva appena cominciato a svelare i segreti di Cosa Nostra e Manganelli, con Gianni De Gennaro, Alessandro Pansa e Francesco Gratteri, era impegnato notte e giorno a caccia dei riscontri insieme a Ninni Cassarà, il capo della sezione investigativa della Mobile ucciso dalla mafia, tra i pochi investigatori palermitani di cui Falcone si fidava in quegli anni carichi di diffidenze e veleni.
Manganelli, deceduto all’ospedale San Giovanni di Roma, era calmo, riflessivo, aveva sempre “il sorriso sulle labbra, era identico a Giovanni Falcone”, come dice l’ispettore della Dia in pensione Pippo Giordano, che con lui ha lavorato al Servizio Centrale Operativo della Polizia e che ieri è stato tra i primi ad essere avvertito che ormai, il sacerdote gli aveva somministrato l’estrema unzione. Ad Antonio Manganelli sono legate tutte le più importanti operazioni di polizia di quegli anni, dalla Pizza Connection ad Iron Tower, alla gestione dei collaboratori di giustizia che hanno fatto la storia della lotta alla mafia, da Buscetta, a Contorno, a Calderone, a Marino Mannoia. E toccò a lui anche la parte forse più difficile, la gestione del pentito Totuccio Contorno, la “fonte prima luce”, al centro di polemiche roventi alimentate dagli anonimi del “corvo” e mai del tutto sopite, visto che fino allo scorso anno in Procura a Caltanissetta si rileggevano quelle vicende alla luce delle nuove acquisizioni investigative sul fallito attentato dell’Addaura contro Falcone.
A metà degli anni Novanta Manganelli diventò questore di Palermo e sotto la sua gestione la sezione Catturandi della Squadra Mobile divenne “mitica”, per l’elenco dei “colpi” messi a segno, tra cui il boss Pietro Aglieri. Un impegno poi proseguito da capo della Polizia, quando costretto a sostituire il capo e amico di una vita, Gianni De Gennaro, travolto dai fatti del G8, seppe condurre la Polizia di Stato in modo fermo ed equilibrato, senza mai sconfessare il suo predecessore, ma restituendo alle divise blu un’immagine fortemente appannata.
A Palermo era venuto per l’ultima volta il 3 settembre scorso, insieme al ministro Cancellieri, alla commemorazione dell’omicidio del generale Dalla Chiesa, e quattro mesi prima, già visibilmente sofferente, sempre a Palermo, aveva scoperto la lapide che ricorda quasi trecento vittime della mafia al Giardino della Memoria di Ciaculli, un luogo al quale era particolarmente affezionato e del quale chiedeva frequentemente notizie.