Ascanio Celestini usa le parole come un muratore fa con le pietre. Messe una sull’altra, oppure lasciate a terra, tenute strette da un bisogno, da un sogno, da una bestemmia, realizzano un pensiero, ci conducono al fondo dei nostri dubbi. Vive in una borgata romana, “dieci centimetri sotto l’appartamento dove sono nato. La mia bottega è quella di mio padre, e mia moglie è figlia del nostro ex portiere. Ci stiamo costruendo una casa nuova nella parallela della via dove abito. Tutta la mia vita in cento passi o poco più”. Dalla borgata la crisi si vede più nera: “Cambiano i volti, sono facce scure, mediamente sole, e pronunciano parole violente. Frequento il bar e lì guardo e ascolto”.
La violenza ci difende dalla paura, non ti pare? “Dalla solitudine direi. A Morena, il nome della mia borgata appena dietro Ciampino, non c’è abitante che non abbia sgobbato una vita. Uno, due, tre lavori insieme. Hanno la lavatrice (la lavastoviglie non tutti), ma due o tre televisori e il computer e la verandina e il sottotetto. Hanno il salotto e la cucina Scavolini. Ma sono soli. Si sono costruiti una solitudine con grande fatica. E vedono quel minimo senso di benessere sfuggirgli di mano, andarsene via”.
Soli e disperati. “Ti ricordi trent’anni fa cos’era un partito? La Dc o il Pci? Se io e te eravamo iscritti al partito, o solo simpatizzanti o anche semplici elettori, avevamo punti di vista comuni. E il nostro punto di vista era in qualche modo simile a quello del segretario del partito. Era una comunanza di sguardo: guardavamo lo stesso orizzonte. Ed eravamo felici di esserlo”. Era la comunione. “Il mio destino è il tuo, la mia pena la tua, la mia felicità simile a quella che provi tu. La mia vita è un po’ la tua”. Oggi è l’opposto. “Oggi godo tanto di più quanto più inveisco contro di te, mi sento distante da te e ti maledico. Altro che leader, sei lontano, devi sparire, mi porti solo guai. Sei un incompetente, un truffatore. E rubi, è il minimo che ti dico”.
La crisi sconforta, e i conti li stanno pagando gli innocenti. Nessuno porta responsabilità quando invece c’è. Non è che si diventi cattivi perché l’umore cambia. “Descrivo uno stato d’animo. Vado al bar e sento solo dire: in galera! In carcere gli extracomunitari che pisciano davanti al mio portone; in carcere naturalmente Berlusconi e in carcere pure tu. Siamo contro, e a prescindere e costruiamo questa condizione di avversione perché al fondo abbiamo l’idea che ormai nessuno più ci possa rappresentare”. Ci possa aiutare o anche solo rappresentare? “C’è bisogno di una guida? Non c’è bisogno. Quelli sono incompetenti, no? Sai perché ha vinto Grillo? Perché il suo movimento, o non movimento, può rinegoziare ogni giorno il suo punto di vista. Non è ancorato a nessuna idea”.
Non sembra ti piaccia. “Non mi piace, non mi ci ritrovo, ma capisco. Lui parla a quella piccola borghesia che sta perdendo la lavatrice, il sottotetto, l’automobile, i contributi previdenziali. Parla ai miei coinquilini, alla mia borgata. È gente impaurita (e io dico giustamente). Mica senti Grillo discettare degli immigrati, o dei poveri che non hanno più nulla? Sono invisibili e non li vede neanche lui. Malati terminali della società”. Quando una vita si sbriciola all’improvviso, non c’è futuro e nemmeno una speranza, persino la precarietà diventa un bene di lusso che pochi possono detenere. Come puoi chiedere uno sguardo comune? “La legge del formicaio sovrasta ogni formica. È il sistema che è imploso, ma non siamo in grado di riuscire a individuarne un altro. Sono stato ad Auschwitz e Shlomo Venezia mi ha raccontato la sua drammatica avventura. Internato nel lager era chiamato a condurre i prigionieri alle docce chimiche voce: “Shlomo! Shlomo! È suo cugino Leone che lo riconosce e lo chiama. Si avvicina, gli chiede: perché devo morire? Puoi fare qualcosa tu? Shlomo non sa fare altro che andare dal militare tedesco e gli chiede il favore di salvarlo. Il tedesco risponde: e che posso farci io? L’orrore di questa scena si reggeva su un sistema collaudato di decisione e di comando. Al tedesco non competeva valutare”. Non mi compete, non è mio compito, chiami quell’ufficio.
E’ il medesimo paradigma della nostra burocrazia: nessuno è chiamato a rendere conto. “La vita è responsabilità. E invece stiamo facendo appassire la nostra vita, il nostro futuro nell’eterna assoluzione di noi stessi. La colpa è sempre degli altri: di chi è al governo o al municipio, della dottoressa dell’Asl, del vigile urbano. La colpa è del geometra. Siamo poveri per colpa degli altri, stiamo male per colpa degli altri. Colpa loro: la scelta più agevole per un ignavo. L’indice puntato. Sono gesti che si ripetono davanti ai miei occhi e parole che risuonano come fosse un sottofondo musicale. E invece è sempre mia la responsabilità”. Tra un po’ di settimane inauguri a teatro il tuo Discorso alla nazione, anche tu con una soluzione in tasca: “C’è un paese che sta lentamente scivolando nella guerra civile. Non tutti se ne accorgono. Un tizio si candida a fare il dittatore, dopotutto è meglio un dittatore che la guerra civile. E dopotutto la gente pensa di sì”.
Da Il Fatto Quotidiano del 22 marzo 2013