La Spagna sarebbe pronta a introdurre il principio del voto vincolante degli azionisti nella determinazione del compenso dei manager bancari. La notizia, riferita in questi giorni dal Financial Times, rappresenta l’ultimo capitolo dell’infinita battaglia sugli stipendi degli alti dirigenti del settore, da anni ormai nel mirino dei contribuenti, già coinvolti, loro malgrado, nelle costose operazioni di salvataggio degli istituti di credito travolti dalla crisi. L’operazione rappresenta un passo in avanti per Madrid in relazione alle altre riforme in programma a cominciare, ricorda il quotidiano britannico, dal progetto di legge pensato per imporre a tutte le aziende quotate in borsa di rendere noti i dati sui compensi all’authority di controllo nazionale.

La svolta potrebbe essere particolarmente significativa. Nel Regno Unito, dove la sua filiale si è formata nel 2010 con l’acquisizione di Abbey National, Alliance & Leicester e Bradford & Bingley, l’istituto spagnolo Santander, lo stesso della vendita di Antonveneta a Mpsha distribuito nel corso del 2012 oltre 1 milione di sterline di stipendio a 19 dipendenti aumentando l’ammontare dei bonus del 14%. La numero uno di Santander UK Ana Botin, ha riferito la stampa britannica, ha guadagnato circa 4 milioni di sterline tra retribuzione fissa e bonus, con un aumento della base salariale pari al 24% rispetto all’anno passato. Cifre che stonano tanto con la soddisfazione dei clienti quanto con quella degli azionisti. Santander UK è stata coinvolta in una contesa legale sulla vendita ingannevole di prodotti derivati a protezione della variabilità dei tassi di interesse che avrebbero comportato perdite per la clientela small business cui erano stati piazzati. Nel 2012, i profitti britannici di Santander sono diminuiti del 2% rispetto all’anno precedente.

Non va meglio in patria se complessivamente alla fine del 2012 il Grupo Santander  ha registrato un utile netto di 2,2 miliardi, ovvero il 59% in meno rispetto al 2011. Nel confronto con l’anno passato, ha fatto sapere la banca nel suo rapporto annuale, la retribuzione dei dirigenti si è ridotta del 35 per cento. In linea con il dato generale, ha evidenziato la Reuters, gli stipendi del presidente Emilio Botin e del ceo Alfredo Sáenz sono così diminuiti di un terzo attestandosi a circa 3 e 8,2 milioni di euro rispettivamente.

I piani messi a punto da Madrid si affiancano al progetto di regolamentazione europea approvato di recente. Nelle scorse settimane, Bruxelles ha trovato un’intesa di massima per l’imposizione, a partire dal 2014, di un tetto massimo ai bonus dei banchieri che, secondo i piani, non dovranno superare il doppio dello stipendio fisso e dovranno passare attraverso l’assenso degli azionisti. La riforma, dovrà ora trovare la ratifica dei singoli Stati tra i quali, ovviamente, mancherà il Regno Unito, da sempre impegnato nella difesa degli interessi della City e dei suoi 144 mila impiegati. La riforma europea sul fronte dei bonus, osservano gli analisti, non dovrebbe avere, per altro, un grande impatto sulla Spagna, dove tradizionalmente la parte variabile rappresenta una componente minoritaria dello stipendio dei manager. Proprio per questo, va da sé, la decisione di puntare forte sul ruolo degli azionisti nella determinazione dello stipendio complessivo rappresenterebbe per la nazione iberica una svolta assai più significativa.

Il principio è noto da tempo come say on pay e rappresenta una delle più celebri battaglie del cosiddetto azionariato attivo. Negli Stati Uniti, dove la tradizione dell’impegno diretto degli azionisti è particolarmente radicata, la campagna ha riscosso qualche successo nel corso degli anni post crisi. Nel 2008, ricordava un rapporto dell’American Federation of State, County & Municipal Employees, un sindacato americano del pubblico impiego con circa 1,6 milioni di iscritti, soltanto 6 compagnie private americane avevano adottato volontariamente il principio del voto degli azionisti sul tema della retribuzione. Nel 2009 il numero delle aziende coinvolte era salito a 18, nei primi mesi del 2010 si era arrivati a quota 50, senza contare gli istituti che avevano fatto ricorso al TARP (Troubled Asset Relief Program, il primo programma di salvataggio pubblico del settore finanziario Usa), obbligati a promuovere il voto consultivo degli azionisti. Oggi, nota il Financial Times, la Gran Bretagna si è già impegnata a consentire il say on pay in tutte le aziende quotate e la Germania ha annunciato di essere pronta a sostenere il medesimo principio.

A marzo, il sorprendente risultato del referendum svizzero, che ha dato il via libera all’introduzione di un tetto agli stipendi dei manager delle società private quotate in borsa, ha sancito uno stop alle buonuscite milionarie e ai bonus legati alle operazioni di acquisizione ma ha anche imposto il principio del potere decisionale degli azionisti chiamati ad esprimersi sulle retribuzioni. In Italia, il Codacons ha chiesto l’applicazione di un’identica consultazione e resta tuttora in attesa di risposta. Ad oggi, gli azionisti delle aziende della Penisola (in particolar modo i “piccoli”, spesso beffati due volte sul fronte dei risultati prima e delle liquidazioni poi, vedi i casi Alitalia-Cimoli e FonSai-Ligresti) possono votare sulle voci di bilancio che riguardano gli stipendi dei manager ma il loro parere non è comunque vincolante, come ben sa il numero uno di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, recordman d’incassi nel 2011 che si però espresso in maniera possibilista sull’argomento. La novità, sul tema retribuzioni, è arrivata però proprio nei giorni scorsi quando Bankitalia ha imposto ufficialmente lo stop a dividendi e bonus per le banche con i conti in rosso o con livelli patrimoniali (in linea con le raccomandazioni di Basilea) giudicati ancora insufficienti. Un primo passo in avanti, forse, su una strada ancora molto lunga.

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