In una recente intervista a Il Fatto il manager più pagato d’Italia (nel 2011 ha incassato 22 milioni di euro), Marco Tronchetti Provera ha mostrato una moderata apertura alla possibilità di introdurre tetti per i compensi ai manager privati se questi sono stabiliti dall’assemblea degli azionisti. Sul tema invece la politica italiana appare ancora troppo titubante.
Nel programma Pd ad esempio non sembrano esserci riferimenti sulla questione anche se Bersani durante il confronto televisivo con Renzi ha parlato di un tetto per gli stipendi sia per i politici sia per i grandi manager.
Nel programma del M5S, seppure c’è un esplicito richiamo alla tematica sotto la stella ‘Economia’, questa ha una formulazione pressoché preliminare; si parla infatti di “Introduzione di un tetto per gli stipendi del management delle aziende quotate in Borsa…”.
Poche parole orali (come le dichiarazioni di Bersani) o scritte (nel programma M5S) non permettono perciò di esprimere una valutazione netta in merito alle potenziali policy su questo specifico argomento che i due schieramenti potrebbero avanzare più o meno in condivisione.
Altresì la nazione che per prima si è mossa su questo fronte lo ha fatto “solo” in virtù di un referendum popolare. Come ampiamente documentato nei giorni scorsi l’esito inequivocabile del referendum svizzero “contro le retribuzioni abusive” dei manager (67,9% di SI’ e 26 su 26 cantoni a favore) impone che la Costituzione svizzera sia emendata al fine di prevedere un divieto ai bonus dei manager per le imprese quotate, di vincolare le decisioni sulla retribuzione del cda al voto dell’assemblea degli azionisti e infine di punire con sanzioni penali il mancato rispetto di tali norme.
L’esito è ancora più significativo per il fatto che la stragrande maggioranza dei partiti svizzeri aveva invitato a votare No e inoltre la Economiesuisse (ovvvero, la “Confindustria” svizzera) aveva allestito una costosa campagna pubblicitaria per il No. Ma il risalto che hanno avuto nei giorni precedenti il voto vicende come quella “Vasella”, l’ex presidente del cda Novartis che come buona-uscita avrebbe ricevuto un’indennità di circa 60 milioni di euro (benché a seguito delle forti polemiche Vasella ha rinunciato a questa indennità), hanno rafforzato il fronte del sì. Tale è stato il successo (per trovare percentuali di sì superiori occorre risalire ai primi anni Novanta quando il giorno di Festa Nazionale Svizzera, il primo Agosto, fu reso festivo con circa l’ottanta per cento di sì) che è in previsione un’ulteriore iniziativa referendaria denominata “1-12 – per salari equi” che punta a ridurre le disparità tra la busta paga più bassa e la più alta nella stessa azienda imponendo un rapporto di uno a (massimo) dodici.
Può accadere lo stesso in Italia? E’ inverosimile. Infatti l’opinione pubblica italiana non ha meccanismi di democrazia diretta efficaci come quelli al di là di Chiasso. Per di più le posizioni dei partiti italiani non sembrano abbastanza compatte sul tema; basti pensare, tra le altre cose, alle forti spaccature di alcuni mesi or sono tra i componenti di spicco del governo Monti per una questione relativamente più genuina quale quella del tetto per i manager pubblici così come previsto dal pacchetto “Salva Italia”.
Oltre a ciò un intervento normativo da parte del Parlamento italiano per introdurre tetti ai manager di imprese quotate è reso ancora meno probabile dal fatto che potrebbe prevalere (giustamente!) un’azione a livello comunitario. Difatti dopo l’esito del referendum svizzero Michel Barnier, Commissario Europeo del Mercato Interno, ha affermato che anche la Commissione Europea intende dotarsi di norme per limitare i salari dei dirigenti di tutte le società quotate nell’Ue ed entro la fine del 2013 sarà presentato un pacchetto di misure simili a quelle dell’iniziativa svizzera. Anche se, occorre ricordare, poche settimane fa è stata rigettata (o probabilmente solo rinviata con l’introduzione del pacchetto Basilea 3) una bozza di interventi comunitari che già avrebbe limitato i bonus dei manager nel settore bancario (in particolare vi si stabiliva che i bonus non avrebbero potuto superare lo stipendio base annuale del manager ed eventuali deroghe, che comunque non potevano eccedere due volte lo stipendio base annuale, avrebbero dovute avere l’avallo di una maggioranza qualificata degli azionisti).
Il New York Times ha ricordato che secondo Jan Tinbergen, il primo Nobel per l’economia della storia (era il 1969), un’impresa diviene meno produttiva quando la retribuzione del dipendente meglio pagato supera di più di cinque volte la retribuzione del soggetto meno pagato nella medesima impresa. Questa regola di “uno a cinque” stride palesemente con alcune recenti rilevazioni (si veda, inter alia, l’“Executive Paywatch” dell’AFL-CIO America’s Union) che mostrano che nelle company statunitensi il compenso per i manager è ben 380 volte il salario medio del dipendente della medesima impresa. La retribuzione (eccessiva) dei manager è tuttavia un problema che interessa non solo il Nord-America ma anche gli stati europei, comprese le nazioni (più) ricche e liberali quali la Svizzera.
In Germania dopo il referendum svizzero su alcuni cartelloni del partito “die Linke” si poteva leggere “mehr Schweiz wagen!”, che alla lettera si può tradurre come “osare più Svizzera!”
Concludendo, è improbabile che l’Italia osi in tal senso per le ragioni sopramenzionate e perciò su questo punto specifico possiamo assegnare un semaforo giallo (con molte riserve, comunque) circa una potenziale condivisione programmatica di intenti e di azioni tra le forze politiche, in generale, e tra Pd e M5S, in particolare.
Massimiliano Vatiero