L’abbiamo detto. L’abbiamo scritto. L’abbiamo recitato in piazza: la società civile, questa garbata astrazione che rimanda a donne e uomini benedetti da una vita normale, deve partecipare alla politica. Gestire poteri. Governare territori. Farsi carico del bene comune.
Misurarsi con le tentazioni del privilegio. Dimostrare che è possibile mantenersi puliti, che lo spirito di servizio esiste, che occuparsi della cosa pubblica è anche una passione. Abbiamo detto (io fino a diventare noiosa) che le donne devono prendersi la loro parte, esserci, comandare, decidere, esercitare l’arte della mediazione, ristabilire la parità nella rappresentanza. Abbiamo detto che, ai piani alti, donne e uomini devono accedere in misura eguale: 50 per cento femmine, 50 per cento maschi. Abbiamo detto che le stanze dei palazzi dovevano essere invase da un’onda anomala che sappia spazzare via vecchi rituali e cattive maniere, che rinnovi, che faccia respirare. L’abbiamo detto.
Un po’ tutti, no? Con diverse gradazioni di fervore, chi in modo collerico e disperato, chi con parole pacate e malinconiche, ma l’abbiamo detto. Poi qualcosa è cambiato. Il Movimento 5 Stelle ha intercettato disperazione, rabbia e malinconia, l’ha fatta montare sul web, l’ha messa all’incasso. Ma era nell’aria da un decennio, come sa chi è stato girotondino o viola o donna di “Se non ora quando”. Bene: i più intelligenti, i più onesti fra gli uomini politici, invece di spaventarsi e arroccarsi in difesa, hanno colto l’occasione per smarcarsi dal vecchiume, da pratiche arrivate al capolinea, da rendite di posizione che da decenni nessuno verificava. E hanno aperto alla “gente di fuori”, le porte delle istituzioni.
Il più deciso è stato Nicola Zingaretti. Me ne sono accorta subito, come tutti, e lo stavo seguendo con compiaciuto maternalismo (ecco qua uno di cui non sarò costretta a scrivere male), quando mi è arrivata la sua telefonata: erano le undici del mattino del 20 marzo. Mi ha detto: ho fatto una giunta dove le donne sono 5 su 10. Ma forse 6 su 10. Bene, ho detto, che la metà del cielo ti benedica. Poi mi ha chiesto di essere io la sesta. Cioè di prendermi carico dell’assessorato a me più congeniale, la cultura e lo sport. La prima reazione è stata di sbalordimento. La seconda: un molto opportuno senso di inadeguatezza. A me gestire del denaro pubblico per il bene comune sembra una responsabilità enorme. E poi: io so di essere in grado di produrre personalmente e personalmente consumare cultura (con un godimento che non si è mai offuscato ), ma distribuirla nel territorio, renderla accessibile, promuoverla, salvaguardarla, metterla all’incasso, trasformarla in reddito, in posti di lavoro, alleggerirla della burocrazia, restituirla alla sperimentazione, scovarla nelle mille piccole iniziative disperse in tutta la regione e mostrarla… beh, questo mica è facile.
Non basta crederci, non basta essere brave a scrivere. Non basta neanche essere certe, come me, che l’arte ti salva la vita, che amare e capire la letteratura ti rende più forte, più felice e più capace di difenderti dalla schiuma nera dei giorni, dalla noia figlia della superficialità, dal declino della parola…Non basta…e non basta essere certi, come me, che praticare uno sport fin dalla scuola elementare e portarselo dietro fino alla terza età previene le malattie, libera la mente, insegna la competitività pulita, forma il senso di squadra… Non basta.
Così ho detto: caro Zingaretti, tu sei matto. Ma poi, naturalmente, ho accettato. Perché se sei convinta che i cittadini devono impegnarsi, a rotazione, nelle istituzioni, per migliorare questo Paese (le regioni potrebbero essere il laboratorio in cui si costruisce, nel piccolo, un’Italia diversa), quando lo chiedono a te, non puoi tirarti indietro. Perciò: non leggerete più la mia rubrica “ad personam”. Non tanto perché ho un sacco da fare, anche se ce l’ho, ma perché mi sentirei meno libera, meno capace di guardare da fuori, visto che, per il momento, sono dentro. Quando avrò qualcosa da raccontare, qualche cosa di bello, lo farò. Oggi è stato il primo giorno di scuola. Al tavolo della Giunta, noi, le sei donne, abbiamo trovato un mazzo di fiori.
il Fatto Quotidiano, 24 Marzo 2013