Antonio osserva l’aereo appena decollato dall’aeroporto di Barajas. È a poche centinaia di metri, dall’altra parte della A-2, che da Madrid porta a Zaragoza. Alle sue spalle, con l’ingresso sovrastato da due torrette di vigilanza in stile franchista, lo stabilimento dell’Iveco, dove Marchionne investirà 500 milioni di euro nei prossimi 4 anni. Grazie ai contributi pubblici (che ha detto di non voler più accettare in Italia) e soprattutto con libertà di licenziare.
Lo stabilimento, fino al 1992 era di Pegaso, la marca dell’azienda nazionale di automobili spagnola, come ricorda l’insegna ancora scolpita sulla facciata. Un guardrail in cemento porta le cicatrici di anni di lotte sindacali: “Italianos mafiosos”, “Iveco Corrupta”. Per Antonio e per altre 40 persone è stata la sede di lavoro solo per due settimane, lontano dalla famiglia e dalla fabbrica di Brescia, dove la Fiat gli promise, anni fa, un posto fisso. Ora si trovano in trasferta con la cassa integrazione sulle spalle. Questa volta è toccata la capitale spagnola: “Qui c’hanno tanto lavoro”, assicura Antonio, una polo blu griffata Iveco e la fronte sudata dopo 8 ore in catena di montaggio. Parecchio lavoro da quando la ditta ha deciso di spostare il grosso della produzione dello stabilimento di Ulm, in Germania – dove ora si producono solo veicoli antincendio – alla periferia di Madrid. Un accordo da mezzo miliardo di euro e 1.200 posti di lavoro tra la capitale e Valladolid entro il 2016, come Marchionne ha garantito al Premier spagnolo, Mariano Rajoy.
L’investimento è sembrato un miracolo alla Spagna in recessione: empleo, posti di lavoro, almeno 600 entro il 2012 per produrre i nuovi camion Stralis ed Euro 6. Con un “sostanzioso aiuto pubblico” garantito dal Governo, concretizzato lo scorso 28 di dicembre in 20 milioni di euro, di gran lunga il piú quantioso tra quelli concessi nel settore dell’ automazione. “Qui si produce tutto nel centro, ad Ulm si assemblava solamente”, si giustificano dell’azienda. Quando si propone questa versione agli operai spagnoli, però, la risposta è una smorfia ironica. “Certo, è un cambio importante” – commenta uno di loro, appena entrato con un salario da 14mila euro annui e la speranza di diventare a tempo indeterminato tra un anno – “ma qui gli stipendi sono più bassi che in Germania. Y despedir es más barato”, licenziare è più economico.
Nella Spagna con un 25% di disoccupazione l’accordo a cui è arrivata Iveco con i sindacati garantisce la libertà di licenziare per giusta causa e con 20 giorni di indennizzo per anno se solo si prevedono “riduzioni nella produttività“. Una “clausola” che accompagnerà il lavoratore per tutta la sua permanenza nell’ azienda. Il cambio di produzione, inoltre, obbliga a contrattare nuovi lavoratori, ma di una categoria inferiore, con un taglio sugli stipendi di 3.000 euro in 3 anni. Tutto regolare grazie alla riforma del lavoro approvata solo tre mesi prima dell’ annuncio dei nuovi piani di Iveco. “Per questo, in giugno, noi non firmammo l’ ultimo accordo”, spiega Heriberto Tella, rappresentante del sindacato Cgt, uno dei tre nello stabilimento. “Perché non stanno importando, in Spagna, solo posti di lavoro, ma salari più bassi, esattamente come noi stiamo esportando mano d’opera economica”. Flessibilità ed efficienza dunque, per produrre 96 camion al giorno, meno dei 124 del 2001 ma molti di più dei 22 che nel 2008, al limite del fallimento, sfornava la fabbrica.
I lavoratori dello stabilimento di Madrid hanno vissuto sulla propria pelle gli sbalzi nei piani della Fiat, le esigenze di “flessibilità“. A dimostrarlo, gli 11 procedimenti di licenziamento collettivo (Expedientes de Regulación de Empleo, in spagnolo) che l’azienda ha portato al compimento dal 2008 ad oggi. “Il più duro fu nel 2009”, ricorda Tella, che nell’ ex-Pegaso lavora da 35 anni: “Ho lottato contro i fascisti di Franco, e ora tocca continuare a lottare”. In quell’ anno, 1024 lavoratori su 2.600 rischiarono di dover fare le valigie. “L’ azienda aveva accumulato più di 51 milioni di benefici nell’ anno precedente, ma mise sul tavolo mille lavoratori come ostaggio: o il Governo mi aiuta, o chiudo”, ricorda Tella. E dopo le proteste, gli aiuti, nella Spagna che iniziava a soffrire gli effetti dello scoppio della bolla immobiliare, arrivarono. 15 miliardi di euro, che permisero la cassa integrazione per 350 lavoratori durante 2 anni. Alberto, 36 anni di cui gli ultimi 10 in catena di montaggio, passò da tutti gli 11 ‘espedienti’. “Era un dentro fuori continuo”, ammette. Non puó vedere nulla di male, quindi, nella “scommessa su Madrid” che l’ Ad di Fiat annunciò a giugno.
La decisione fu presa nell’ ambito della “riorganizzazione” delle strutture europee, un cambio di strategia che ha fatto riunire a Torino i sindacati di vari paesi, Spagna compresa, per chiedere alla Fiat di trattare con i sindacati a livello comunitario, e non fabbrica per fabbrica. “Ma Marchionne è troppo furbo“, ridacchia Joaquín, rappresentante del sindacato Comisiones Obreras, il maggiore in Spagna. Ora, però, applaude l’ Ad Fiat: “La sua decisione è per noi un beneficio”. “Vogliamo una produzione industriale forte”, assicura, per un Paese che è il secondo produttore di automobili in Europa. Allarga le braccia sconsolato, però, quando gli si ricorda il prezzo da pagare per la “riorganizzazione”: negli ultimi due anni, 600 lavoratori licenziati a Barcellona, con la chiusura di Iribus e di Comesa, dove Iveco produceva autobus e relativi componenti meccanici. “Ma c’è bisogno di essere flessibili, di adattarsi. È quello che vogliono i mercati”, risponde rassegnato il sindacalista. Gli operai venuti da Brescia lo sanno bene.
di Daniele Grasso