“Hai visto com’è diventato il mondo, almeno il nostro?, dico dalla nostra parte, dove viviamo noi…è tutto grasso, oleoso, guardali, quelli che ti dicevo prima, i saccenti, sono pieni di umori che gli circolano sotto l’adipe…trigliceridi, è tutto colesterolo, invece io sono quasi un minerale, lo vedi?…le pietre, non dicono niente…io sono una pietra che parla, un sasso che sta sulla riva di un torrente, un sasso che sta lì buono buono e guarda l’acqua e dice, vai, vai pure sorella acqua, scorri, scorri, chissà cosa ti credi, io me ne sto qui sulla riva, fermo come un sasso, perché sono un sasso, fratello sasso…”. Il protagonista di Tristano muore, intenso e conturbante romanzo di Antonio Tabucchi – della cui morte oggi ricorre il primo anniversario – è un uomo che vive la sua ultima agonia raccontandosi a uno scrittore che ha chiamato al suo capezzale in veste di testimone. Lo fa in maniera asciutta, priva di umori, proprio come il sasso che dice di essere, mescolando ricordi e sogni, passato e presente, donne diverse che poi non lo sono e paesi diversi in cui ha vissuto.
Il romanzo, uscito nel 2004, ebbe una lunga gestazione di quasi dieci anni. Di quella gestazione resta una bella testimonianza, un film: uno strano film che racconta la genesi di quest’opera e le incertezze di Tabucchi. Il film si intitola Tristano e Tabucchi, e fu prodotto nel 2003 da una produzione svizzera per conto della televisione di quel paese. Non è facile vederlo, eppure è un film molto curioso. Di solito gli scrittori sono assai avari di notizie sui loro lavori in corso. Qui accade il contrario: Tabucchi ne legge alcune parti, parla del lavoro della scrittura, commenta il suo romanzo in fieri. E’ un Tabucchi generoso e al tempo stesso scarno. A un certo punto dice che ci vorrebbero dei topi che rodessero un po’ il materiale: c’è troppo in questo romanzo, occorrerebbe sottrarre. Ci vorrebbe un tappo da aprire per far defluire un po’ del materiale accumulato: in quella fase lui sta cercando il tappo. E osserva questo mentre sta in una stazione ferroviaria abbandonata, deserta. Un luogo asciutto anche quello, senza fronzoli, un luogo adatto per far emergere le cose essenziali della vita e spogliarsi invece delle scorie. Bisognerebbe avere il coraggio di buttare qualche pagina: con un gesto rituale e un po’ stregonesco, Tabucchi prende alcune pagine dei suoi taccuini di scrittura per farne un aeroplanino da gettare nel mare. E il romanzo che poi uscirà recherà le tracce di questo scavo sul materiale.
La scrittura di Tabucchi è asciutta e proprio per questo ficcante come il suo autore: non solo romanziere e accademico di successo, ma appassionato testimone civile del degrado dell’Italia nel ventennio berlusconiano. Anche quando parla di questo, Tabucchi scava, va al cuore delle cose, semplice, diretto. Sentite come, in una recensione a un romanzo di un giovane autore, descrive la berlusconizzazione di tutta una generazione: “quella generazione che dall’infanzia a oggi in Italia non ha conosciuto altro che il sistema tolemaico di quell’imprenditore brianzolo proveniente da un’associazione eversiva che la stampa italiana, con un anglicismo fuori luogo definisce «il premier». E che ha come «seconders» (a questo punto ci sta bene) boss mafiosi, corruttori di giudici, sub-agenti dei servizi segreti, giornalisti al soldo, sicari, cardinali, magnaccia e cocainomani. Un tipetto che di quella nave da crociera, dove dapprima faceva l’intrattenitore, è divenuto il capitano”.
Di questo modo diritto di parlare, poco “elettorale” se vogliamo, ma molto politico, oggi, soltanto un anno dopo, si sente la mancanza.