Con la doppia questione Travaglio-Grasso bissata da quella Travaglio-Formigli abbiamo raggiunto l’effetto paradigmatico di un sistema politico e mediatico in assoluta estatica attesa. Se la cantano e se la suonano, gli amici/nemici, come in altri ambiti professionali raramente è concesso.

Assistiamo al collasso di un sistema mediatico in cui i giornalisti vengono fagocitati da logiche e dinamiche che loro stessi hanno, per primi, misurato e applicato sull’oggetto del loro amore o del loro odio; la politica. L’inseguitore che diventa inseguito, la sostanza sostituita dalla forma, è frutto di un evidente paradosso che ci ha fatto credere che i due sistemi potessero coesistere in un rapporto di interdipendenza.

Cosi non è.

E non si creda che sia solo questione di bivacchi nelle reti televisive, da mane a sera, da parte di ambedue le categorie. E’ questione, più seria e contingente, di un giornalismo che si è fatto solo politico e di parte, ed è incapace di operare distinzioni nei confronti di uomini e donne quando nemici. Lesto nel giustificare e assolvere quando amici. Proprio come la politica che tanto si accusa e tanto si disprezza.

Ci si domanda perché il giornalismo da noi è morto? E’ sufficiente leggere, in questi giorni, la cronistoria di ciò che a partire dal giovedì (di) Grasso ha accompagnato questo tranquillo weekend di notizie.
Grasso telefona. Formigli si intromette, Santoro si dimette, Ruffini si genuflette, Travaglio ci riflette. Grasso se la gode e con lui la notizia da cui tutto partì.

La politica si fa meta politica e il giornalismo meta giornalismo. Non c’è nemmeno più bisogno di giornalisti dalla schiena ricurva. Bastano e avanzano quelli dalla schiena dritta per rendere lo sforzo di dare notizie, uno sforzo del tutto vano. Perché le notizie sono state accantonate a favore di proiezioni, retro pensieri, illazioni, previsioni, quando va bene. Da ossessive collezioni di frasi, parole, precedenti, sms, squilli, litigi o comportamenti quando va male. Delle domande e delle risposte, che a ben vedere dovrebbero essere l’unica funzione giornalistica, se ne sono perse le tracce.

Il tutto, in salsa partigiana e militante, crea un paradosso evidente: quando gli accusatori diventano accusati non c’è solo distorsione di un sistema da riformare . C’è un sistema da cancellare e da reinventare. Se cambia la politica deve cambiare anche il giornalismo.

E se in politica si può essere timidamente speranzosi , nel giornalismo nulla lascia pensare che le bastonature tra schiene dritte e schiene ricurve lascino il campo al mestiere di giornalista.
 

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