«Amo il cibo perché è l’unica cosa bella che nutra veramente », sentenziava un Richard Gere particolarmente sornione calato nel ruolo dello chef rinomato e fedifrago di “Autumn in New York”. Ma chissà se aforismi e boutades cinefile o letterarie bastano a rendere ragione della vera e propria invasione gastromediatica dei nostri tempi: la tanto decantata (o vituperata) opulenza occidentale, messa a dura prova dalla crisi economica, resiste occhieggiando dalle seducenti tavole imbandite dei ristoranti pluristellati, dalle prelibatezze genuine di agriturismi o rivenditori a chilometro zero, da fiere e kermesse gastronomiche di ogni genere e tipo, per non parlare dei blog dedicati, dei siti web di ricette, delle app dei telefonini, delle infinite variazioni sul tema che popolano ogni settore della carta stampata e di qualunque palinsesto televisivo del pianeta, che ormai non può quasi più reputarsi tale senza includere tra i propri programmi uno o più format consacrati alle prodezze della cucina, con tutto l’ovvio corollario di Nigelle, Benedette, cuochi professionisti, dilettanti (il cui range varia dal creativo-ammirevole all’impresentabile-imbarazzante), concorrenti di reality e compagnia spignattando.
Come sempre accade, l’ampiezza dell’offerta rende non solo avvincente ma anche arduo orientarsi in cotanto profluvio di proposte. Tra le più originali e meglio congegnate va senz’altro annoverata la rassegna “Gusto in scena“, svoltasi la scorsa settimana a Venezia su iniziativa di Marcello Coronini e col patrocinio del Ministero della Salute. Chef, pasticceri, nutrizionisti, viticoltori, ristoratori, gourmet, foodwriters e fornitori provenienti da tutto il mondo si sono dati appuntamento sotto le volte della Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista animando un fitto programma non solo di degustazioni ma anche di conferenze e workshop, con particolare attenzione agli scambi enogastronomici tra Italia e Cina, ovvero a quelle otto cucine regionali cinesi che al momento si qualificano come gli interlocutori più corteggiati dai mercati globali.
Il forum, giunto quest’anno alla sua terza edizione, ha riproposto l’interessante formula del “cucinare con/cucinare senza”, ovvero una sorta di sfida rivolta agli chef presenti, affinché sperimentassero nuove ricette volte a ridurre o viceversa ad impiegare in chiave inedita alcune sostanze nutritive, studiando miscele e dosaggi finalizzati a conciliare gusto e salute. Se dunque nel 2011 il tema prescelto era quello dei grassi, mentre nel 2012 era stato indicato il sale, “Gusto in scena” 2013 ha focalizzato l’attenzione sullo zucchero, il cui consumo eccessivo (soprattutto nei pasti successivi alla prima colazione) può comportare non pochi inconvenienti dietologici. E nonostante l’irriducibile diffidenza di chi ha sempre convintamente ritenuto, con George Bernard Shaw, che le cose migliori delle vita o siano immorali, o siano illegali, o facciano ingrassare, l’esperimento relativo al “cucinare con” e “cucinare senza” zucchero ha prodotto esiti interessanti, dai dessert di fine pasto a base di frutta e miele alle imprevedibili foglie di scarola inzuccherata, esercizio virtuosistico di un possibile impiego dello zucchero extra-dessert. Sul versante strettamente enologico è stata adottata una catalogazione basata sull’ambiente di produzione, suddividendo così i vini nelle quattro categorie mare, montagna, pianura e collina, con eccellenze italiane affiancate dai migliori vini palestinesi, sloveni etc.
Ma ciò che scorre sotto traccia in occasioni del genere è sempre il nostro inevitabile elucubrare sul come e sul perché di questa sorta di imponente “food renaissance” che sembra contraddistinguere i tempi cupi dell’austerity occidentale: forse per esorcizzare gli spettri della miseria? Forse perché il piacere del cibo viene istintivamente percepito (o spacciato) come meno frivolo e inessenziale rispetto a quello di altri beni di consumo (abbigliamento, cultura, viaggi etc.)? O forse ancora perché il cibo, con tutte le sue implicazioni psicologiche, sociali, fisiologiche, salutistiche, morali o economiche non è altro che una macroscopica metafora della vita stessa? Effettivamente in pochi altri ambiti dell’esistenza umana possiamo rintracciare un così esauriente compendio della nostra complessità, ovvero frugalità e abbondanza, astinenza e scialo, forma e sostanza, tradizionalisti o innovatori, ruspanti o sofisticati, estimatori del prelibato o forzati del “trash-food“, mangiatori compulsivi o compensatori, anoressici e bulimici, diabetici, ipertesi, astenici, intolleranti o idiosincratici verso questa o quella pietanza. Ma nulla di tutto ciò può davvero sorprenderci se pensiamo che forse, alla fin fine, il cibo non è altro che la vita che ci attraversa.