Il romanziere torinese Giuseppe Culicchia sostiene che “la prevalenza del rettilineo” segna in maniera permanente il destino dei propri concittadini, “abituati da sempre ad aggirarsi in una città quadrata”, tracciata dai suoi lunghi viali alberati. Con ciò – ad esempio – marcando nel profondo della mentalità collettiva la differenza con i milanesi, cui la circolarità degli anelli concentrici di viabilità induce una sorta di municipalismo autoreferenziale.
Infatti gli storici del fenomeno urbano ci hanno insegnato che “le città sono un prodotto del tempo. Esse sono gli stampi in cui si sono raffreddate e solidificate le vite degli umani” (Lewis Mumford). Questo vale per l’organizzazione generale dello spazio come per tracce minimali che rendono riconoscibile e unico un luogo, ne determinano il suo charme appena percepibile, eppure seducente: angoli, scorci, negozietti che espongono merci introvabili altrove. Anche loro – i negozi di charme, dove il tempo sembra non essere trascorso – concorrono a definire l’anima di una città determinandone il fascino e l’attrattività.
Un po’ come la Boutique des Anges, paradiso parigino dell’oggettistica di soggetto angelico in rue Yvonne-le Tac, o Chat-Bada, regno mondiale dei gattofili in rue des Ecoles. A Londra, i celebri tabaccai Dunhill di Davies St. o il calzolaio Lobb di St. James St., ma anche quello sgabuzzino dietro Oxford St. dove trovi ancora una pezza del tartan, fuori catalogo perché gli antichi telai si sono usurati e nessuno è più in grado di ricostruirli. Insomma, anche questi esercizi, piccoli o grandi, giustificano con il loro profumo vecchiotto, con i loro rivestimenti a boiseries di legno affumicato o il papier peint delle tappezzerie, una visita londinese o parigina. Quanto valeva anche per le nostre città, le cui tradizioni di bottega si traducevano in un’offerta di piccolo commercio estremamente variegata e seducente. Un’offerta che va subendo una contrazione accelerata tendente all’olocausto per la mattanza in corso di quelli che qui abbiamo chiamato “i negozi di charme”. A Bologna nel solo 2011 hanno chiuso 556 empori, 4 mila negli ultimi cinque anni; a Verona ogni giorno muoiono due esercizi; a Campobasso a fronte di ogni apertura di battenti commerciali ce ne sono un paio a scomparire. E così via, in un vero e proprio bollettino di guerra.
Indubbiamente – di fronte ai morsi della crisi – l’appello a salvare il negozio dietro l’angolo potrebbe apparire secondario se non futile. Eppure anche qui c’è un problema di spersonalizzazione dei luoghi che si traduce in un grave impoverimento della vita di tutti noi.
Sempre Culicchia annota che la chiusura del negozio torinese di tessuti in piazza Castello, soppiantato dal solito franchising, concorre allo smarrimento di funzioni identitarie tradotte nell’idea di una distinzione sabauda. Per chi scrive è sempre un groppo al cuore, quando viene a Roma, non trovare più dietro via Frattina quel bugigattolo specializzato in papillon. E non per un insoddisfatto bisogno di acquisto, bensì in quanto da quella sua vetrinetta in penombra emanava la seduzione di un’antica eleganza capitolina. Un po’ come il suo gemello genovese, specializzato in lini e accessori da camicia (compresi quei bottoni alti in madreperla), il cui titolare apriva certi cassetti solo se reputava il cliente in grado di apprezzarne gli articoli contenuti. Snobismo? Anche. Ma anche il segno di una nobiltà delle nostre contrade, ormai in avanzato rischio di evaporazione. Che tra l’altro – per dirla nel lessico manageriale di moda – era un loro vantaggio competitivo. Il Grand Tour del Sei/Settecento per i rampolli europei era rappresentato dal viaggio in Italia, dove potevano apprendere i rudimenti di un vero gusto aristocratico.