“Due minuti d’odio” (da Wikipedia)

I due minuti d’odio sono una pratica collettiva esercitata dal governo del Grande Fratello nel romanzo “1984” di George Orwell. Tale pratica collettiva viene attuata sui posti di lavoro, negli incontri di partito, ovunque sia possibile; consiste nel riunirsi “spontaneo” degli astanti, al segnale emesso da altoparlanti, dinanzi ad un teleschermo che proietta immagini del nemico supremo della patria Oceania, Emmanuel Goldstein, scene di guerra e sequenze studiate per coinvolgere psicologicamente gli spettatori, accompagnate da suoni e rumori fastidiosi. Dopo pochi secondi il pubblico inizia a dare in escandescenze e ad inveire contro Goldstein o contro lo schieramento con cui ci si trova in guerra in quel momento – Eurasia oppure Estasia seconda; si arriva a lanciare oggetti contro il teleschermo, imprecando colti da implacabile furore, sotto lo stretto controllo di incaricati del partito. Chiunque manifesti segnali di eterodossia, o perfino micro-espressioni facciali non consone al contesto, viene considerato come un possibile traditore. Questo meccanismo rappresenta, tra le altre cose, una valvola di sfogo dell’aggressività dei cittadini ed un modo per demonizzazione un capro espiatorio su cui gettare tutte le colpe delle difficoltà della loro vita quotidiana. I “due minuti d’odio” sono funzionali al mantenere un controllo ancora più stretto e serrato sul popolo e sui membri del partito.

L’impressione è che siamo ancora qui. Siamo convinti di “menare” ma abbiamo la faccia disfatta e i vestiti stracciati. Com’è sto fatto? Più meniamo e più sanguiniamo.

Nelle piazze in cui più che ascoltare la nostra rabbia sembrano nutrirsene, in ufficio dove quello che facciamo serve a rifarlo domani, nel nostro salotto di casa davanti ai programmi contenitore/approfondimento tv dove “una signora del pubblico prende il microfono e le canta ai politici”. Nei teatri dove ridiamo della “satira” che esiste solo grazie al politico al quale, se sputa sulle scarpe, è solo per lucidargliele meglio, perché il vero sputo sarebbe non trovarsi lì, su quello stesso palco. Al cinema dove il cinema stesso è ormai ridotto ad una perenne raccolta di firme dove i temi “sociali” ci franano addosso, sfruttati e ridotti ad uno sfinente soliloquio radical/parrocchiale di uno che ha così poche argomentazioni da confondere le rivendicazioni con le storie.

Nel nostro tempo libero che, se non abbiamo una vita degna di questo nome, col cazzo che è davvero “libero”. Il vero tempo “libero” è quello che ci scopre felici mentre siamo occupati.

E così, grazie alla quotidiana razione di due minuti d’odio, siamo sempre più giusti, più furbi, abbiamo capito tutto e non ci fregano più.

Gliele cantiamo noi stavolta. Ma a chi?

Dietro lo schermo, non c’è nessuno.

Possiamo andare a casa, adesso?   

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