Decrescita è ormai il miglior termine per definire il mondo dell’energia in Italia. Nel 2013 il consumo interno lordo di gas metano è sceso del 6,8% nel mese di gennaio; ancor di più quello di prodotti petroliferi: -10,4%. Rispetto al febbraio 2012, in diminuzione netta la produzione termoelettrica (-23,9%): un settore ormai in crisi dichiarata. In confronto ad un anno fa, segnano invece un segno positivo l’idroelettrico (+43%), la produzione del vento (+19,1%) e del sole (+11,2%): tutta energia prodotta senza import.

Il cambiamento di scenario, non previsto dagli amministratori delegati delle aziende elettriche, appare ormai irreversibile. Nessuno pensa più che i consumi possano risalire ai livelli pre-crisi, anche per effetto dei miglioramenti in efficienza energetica e per il diffondersi di impianti decentrati di autoproduzione a rendimento migliorato. Se si fa un’analisi degli ultimi quattro anni è impressionante la crescita nella produzione di elettricità “verde”: +81% dalle bioenergie, +103% dal vento, mentre per il sole l’elettricità prodotta si è centuplicata e la produzione del 2012 è più che doppia rispetto alla produzione del nucleare italiano nel suo massimo anno di splendore (fu il 1986 con 8.750 GWh generati).

Se non si accetta il cambiamento, nascono serissimi problemi occupazionali: per questo occorre capire la direzione della svolta nella produzione e nel consumo di energia elettrica e termica. Ma né il governo né le amministrazioni comunali sembrano accorgersene. Da tempo, in Enel si parla di una eccedenza del 10% del personale in Italia, mentre A2A/Edipower ha annunciato la fermata con cassa integrazione a rotazione in quattro centrali, la chiusura della sede di Mestre e 400 esuberi di personale. Nei fatti, il parco termoelettrico è eccessivo e ammonta a 70mila MW a fronte di una domanda massima di 56mila MW.

La verità è che servirebbero idee per riconvertire le nostre utility – Acea, A2A, Iren, Hera – sennonché gli amministratori comunali si sono affidati completamente al mondo della finanza. Che, evocando mirabolanti effetti con le quotazioni in borsa e mettendo in ombra il grande patrimonio tecnico-professionale e di conoscenza del territorio, di fatto priva i sindaci e i consigli comunali di uno straordinario strumento di intervento per la qualità della vita dei cittadini e il risanamento dell’economia delle città.  

In fondo, le municipalizzate erano nate per assicurare e distribuire l’energia come il nuovo “bene comune” che il progresso offriva. La società pubblica di Milano (Aem) nacque per referendum tra i cittadini per convogliare verso la metropoli la ricchezza d’acqua delle valli alpine sotto forma di elettricità. Nessuno avrebbe osato trascurare il buon servizio per avventurarsi in speculazioni di dubbio ritorno. Invece, oggi in tutta Italia ci troviamo di fronte ad una rincorsa verso sistemi multiutility extraterritoriali, governati da manager affrancati dal controllo dei cittadini e delle loro rappresentanze.

Nel nuovo quadro energetico-climatico, servirebbero urgenti misure per affiancare ai piani regolatori autentici piani energetici territoriali, di risparmio e di produzione pulita, per cambiare il mix delle fonti nelle aree urbane e quindi ottenere benefici risultati per ridurre le emissioni e l’inquinamento. Una spinta verso le rinnovabili e l’efficienza dovrebbe essere la “mission” rivalutata delle municipalizzate: diventerebbero così il cuore per una politica industriale locale, per buona occupazione e per tariffe sociali calmierate. Altro che mirabolanti operazioni che aumentano il debito della proprietà pubblica e spingono alla privatizzazione!

In fondo, per far continuare lo sviluppo ed evitare i licenziamenti nel solare fotovoltaico e nell’eolico, non servono nuovi incentivi ma bastano strutture innovative di rete, informazioni adeguate per allacciamenti e impianti al minor costo, detrazioni fiscali decise dal governo (come quella del 55%) e possibilità di finanziamenti a interessi bassi decise a livello cittadino. Questo magari tramite un fondo della cassa depositi e prestiti, per permettere alle famiglie e a gruppi di acquirenti in cooperativa di auto produrre e ridurre i costi della bolletta, con un analogo meccanismo per le rinnovabili termiche. Compiti che spetterebbero alle municipalizzate, riconsegnate ai cittadini.

I soldi sono sempre più nelle tasche di pochi e la disuguaglianza dei redditi in Italia è superiore alla media dei Paesi Ocse. Così non si fa nulla perché il risparmio non finisca sempre di più nelle grinfie della finanza, anziché in investimenti diffusi e remunerativi per le famiglie e le imprese, come succede con il ricorso al solare, all’eolico, alle biomasse. Come non si fa nulla perché cessi l’abusivismo (oltre 15 abitazioni abusive ogni cento costruite legalmente) e perché crolli l’inquinamento (oltre metà delle 30 città europee più inquinate si trovano da noi, che viviamo in mezzo a 5.000 siti contaminati da bonificare).

A partire da queste considerazioni, risultano importanti indicazioni per la riconversione delle funzioni e la piena ripubblicizzazione delle municipalizzate e per tornare a renderle, come una volta, luoghi di partecipazione delle amministrazioni. Altro che installare, come hanno fatto le “super municipalizzate” che si quotano in borsa, 24.000 Mw fossili negli ultimi 15 anni, con un colossale errore industriale che ora fanno pagare ai lavoratori, ai cittadini e ai programmi nazionali a favore delle rinnovabili decentrate.

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