La cocaina arrivava dalla Spagna (via Gioia Tauro) fino ai quartieri del Casilino, Torre Maura, San Basilio, con una sorta di centrale operativa sul litorale, tra Anzio e Nettuno. L'inchiesta sull'attività degli 'ndranghetisti ha preso il via dopo le dichiarazioni del pentito Antonino Belnome. Il guadagno del solo smercio poteva valere fino a 115mila euro
Armi, tantissime armi. E droga, un fiume di cocaina che dalla Spagna arrivava ai quartieri romani del Casilino, di Torre Maura e di San Basilio. Con una sorta di centrale operativa nel litorale romano, tra le città di Anzio e Nettuno, zona di influenza della cosca dei Gallace, famiglia originaria di Guardavalle, ma radicata nel Lazio ormai da decenni. Il fermo di 10 persone effettuato dalla squadra mobile guidata da Renato Cortese, su richiesta del pm antimafia Palaia, ha fatto luce su un’intera filiera del narcotraffico romano. Punto di arrivo della droga il porto di Gioia Tauro; tappa intermedia le ville a disposizione degli affiliati sulla costa laziale, dove il controllo del territorio garantito dalla ‘ndrina Gallace–Novella assicurava le necessarie coperture.
Ed infine lo spaccio, capillare, realizzato attraverso bar popolari della periferia romana, coperto da un piccolo esercito di uomini armati, in grado di esercitare una forte pressione su chi non pagava la merce o non rispettava le regole. E’ il quadro dipinto nel decreto di fermo che ha raggiunto dieci presunti affiliati all’organizzazione nata dal sodalizio tra i calabresi Gallace e i romani Romagnoli. Un’operazione che ha portato all’arresto di Bruno Gallace, affiliato alla omonima cosca, di Umberto, Alessandro, Tiziano e Francesca Romagnoli, Vincenzo Andreacchio, Alessandro Ceci, Alessandro Del Vescovo, Giuseppe Profenna e Alessandro Tammaccaro. Nomi che sanciscono l’alleanza ormai consolidata tra parti della criminalità romana con una delle principali famiglie della ‘ndrangheta calabrese, mandante, tra l’altro, dell’omicidio di Carmelo Novella, il boss scissionista ammazzato in un circolo di San Vittore Olona il 15 luglio 2008.
Uno dei due collaboratori che hanno permesso alla squadra mobile di Roma di colpire nel cuore l’organizzazione ha raccontato in un interrogatorio qual era il giro d’affari: “Guadagnavano un sacco di soldi, calcoli che facevano venti, trentamila euro al giorno. C’è stato un sabato che hanno fatto cento… 115mila euro”. Soldi che derivavano – secondo le indagini – esclusivamente dall’attività di smercio della cocaina nelle borgate romane.
La potenza del gruppo era garantita anche dalla grande disponibilità di armi in mano all’organizzazione: “Allora, io so che le armi della famiglia vengono dalla Svizzera – racconta uno dei collaboratori riferendosi ai Gallace – c’hanno i parenti in Svizzera, i parenti in Germania, c’hanno un sacco di parenti, da tutte le parti. Calcola che noi quando stavi a casa, che ne so, ti appoggiavi sul letto, può darsi che trovavi una pistola, davi una capocciata, scusi il termine, trovi una pistola sotto al cuscino”. Armi che non venivano vendute, ma tenute in depositi sparsi nell’area romana e del litorale laziale, pronte per ogni evenienza.
L’indagine ha preso il via dopo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Belnome davanti ai magistrati romani, impegnati dal 2006 nel processo di primo grado contro la cosca Gallace in corso davanti al tribunale di Velletri. Belnome nel corso delle udienze aveva ricostruito nei dettagli la presenza ormai pluridecennale della ‘ndrina originaria di Guardavalle nelle città di Anzio e Nettuno. Ai pm della Dda ha poi descritto il ruolo apicale di Bruno Gallace nella gestione dei traffici di cocaina: “C’è Bruno che è forte nella cocaina, è lui che si occupa, Bruno e tutti i suoi… Quando arriva a Gioia Tauro, le faccio un esempio, Bruno all’epoca ne aveva bloccati 120 chili da portare qua, anzi a Nettuno, e li ha portati (…) e li hanno smerciati tutti”.
I fermi sono scattati per il timore di una fuga degli indagati. A febbraio Bruno Gallace si era accorto che un esponente del suo gruppo aveva deciso di collaborare. L’informazione gli era arrivata da un educatore in servizio nel carcere di Rebibbia, che – dopo un controllo nei database – aveva segnalato il trasferimento dell’uomo nella sezione dei collaboratori. Un episodio particolarmente preoccupante, che mostra la capacità di penetrazione anche nelle istituzioni delle cosche calabresi. Già in passato erano state scoperte talpe nei palazzi di giustizia, pronte a vendere soffiate ai vertici del clan.