La scusa per celebrarlo è un anniversario. Vent’anni fa, il 28 marzo 1993, esordì in Serie A. Era un Brescia-Roma, l’allenatore giallorosso era Boskov, e Totti era un ragazzino di 16 anni e un po’, con il ciuffo. Circolano diverse, piccole leggende su quel pomeriggio. Siniša Mihajlović, allora romanista, si è sempre vantato di aver suggerito al tecnico di dare spazio al ragazzino. Pare che un altro panchinaro, il ben più esperto Roberto Muzzi, abbia dato chiarimenti al sorpreso Totti: “Guarda che Boskov ha chiamato proprio te”. Di certo entrò al posto di Ruggiero Rizzitelli, che ora assicura: “Sapevo che Francesco era un predestinato”.
Vent’anni dopo, Totti è un 36enne che si autocelebra felice, fresco del secondo posto assoluto nella classifica dei cannonieri di ogni tempo in A. Davanti c’è solo Silvio Piola, a 274 reti: il capitano giallorosso, insaziabile, vuole riprendere pure lui. Un altro obiettivo, per spingere via lontano il pensiero dell’addio: al calcio e a tutta la vita che ne consegue.
Riavvolgendo il nastro di Totti, ci sono i suoi sorrisi, i suoi allori, e pure le sue cadute. Il giocatore che ora pare monumento nazionale è inciampato. Innanzitutto nei suoi nervi, quando rovinò gli Europei (suoi e dell’Italia) nel 2004, sputando addosso al danese Poulsen. O quando in una finale di Coppa Italia, Roma-Inter del maggio 2010, tirò un calcione da dietro a Balotelli. Episodi infelici, per un giocatore che di “rossi” in campo se ne è presi diversi.
Poi però c’è l’altro Totti: che ha segnato una caterva di gol e regalato giocate talvolta metafisiche. Il cucchiaio su rigore contro l’Olanda, negli Europei del 2000, non è stato il suo colpo migliore, ma è di certo il più rappresentativo. Quasi un’icona, del Totti che è fortissimo e non l’ha mai nascosto, in primis a se stesso. E allora, via di cucchiaio: non solo su rigore. Tantissimi colpi di tacco, pure. E una valanga di punizioni, segnate in tutte le maniere: di potenza, a foglia morta, da lontano, da vicino. Incalcolabili gli assist.
Ha fatto segnare quasi tutti, l’ex Pupone. Tatticamente geniale, tanto da dare vita alla figura quasi inedita del centravanti “ombra” nella Roma di Spalletti: la prima punta era lui, ma in campo i difensori lo rivedevano in area solo quando la buttava dentro. Forse è stato quello il miglior periodo di Totti, in una squadra che giocava un calcio a tratti entusiasmante, e che sfiorò pure lo scudetto. D’altronde il verbo sfiorare si trova spesso nella storia del numero dieci.
Tanti, troppi secondi posti per il giocatore che ha sposato la Roma, scegliendo volontariamente di non andare dove si vince di norma: che fosse Milano o Madrid. Una scelta che è stata limite e forza di Totti: troppo attaccato alla casa madre per crescere ancora, ma pure bandiera romantica, nel calcio che le ha ripudiate da tempo. Alla fine la bacheca parla di uno scudetto nel 2001 (con Fabio Capello), due Coppe Italia, due Supercoppe italiane. Certo, c’è anche e soprattutto quel Mondiale del 2006 vinto in Germania con Lippi. Ma quello dell’estate tedesca non era il miglior Totti, perché reduce da un tremendo infortunio al perone. Fece il possibile, segnando un fondamentale rigore contro l’Australia e inventando qualche buon pallone per i compagni. E alla fine alzò quella Coppa. Ne avrebbe meritati di più, di trofei. Ma forse è poco più di un dettaglio. “Sono un ragazzo fortunato” ha riassunto ieri Totti. Ha ragione lui.