Nell'ultimo lavoro della filosofa e giornalista edito da Fandango, viaggio attraverso luoghi comuni, false credenze e presunte verità scientifiche che accompagnano la discussione sull'interruzione di gravidanza. Obiettivo: scardinare lo stigma sociale che ancora perseguita le donne che decidono di non partorire
“L’inferno dell’aborto sono gli altri”. Con questa breve frase, stampata nero su bianco sulla quarta di copertina, si può riassumere il senso dell’ultimo libro di Chiara Lalli, filosofa e giornalista. “A. La verità, vi prego, sull’aborto” (Fandango edizioni) è un viaggio attraverso gli stereotipi costruiti attorno alla decisione di interrompere una gravidanza, un’indagine sulle false credenze e sulle ricerche spacciate per scientifiche e sullo stigma sociale che ancora perseguita le donne che decidono di abortire.
Lei scrive che non esistono prove scientifiche della sindrome post-aborto (Spa). Questo significa che una donna che abortisce non è condannata a stare male. Perché allora continuano a essere pubblicate ricerche che insistono su questa sindrome?
Non c’è alcuna evidenza scientifica per questa sindrome, secondo la quale l’aborto è intrinsecamente un trauma e quindi chi ci passa è destinata a soffrire e se dice il contrario in realtà mente. Ci sono alcune ricerche, come quella dell’American public health association meeting, che dimostrano che non c’è alcuna connessione causale tra l’aborto e il rimorso. Altre invece, come quella della psichiatra Nada Logan Stotland, rivelano che abortire non diminuisce né causa problemi psichici. Quel che rende difficile o faticoso l’aborto sono le circostanze, come la presenza di un conflitto o di una modalità traumatica nel concepimento e lo squallore di molte strutture pubbliche.
Sono trascorsi 35 anni dall’entrata in vigore della legge 194 che dà il diritto alle donne di abortire ma di aborto si fa ancora fatica a parlare. Perché?
Si tratta soprattutto di una questione culturale. Quando parliamo di aborto siamo in genere in presenza di narrazioni amputate. Pensiamo, ad esempio, ai film: quando uno dei personaggi sta per abortire cambia sempre idea. E anche la narrazione privata è difficile. Nel libro ci sono le testimonianze di donne che mi hanno detto: ho preferito non raccontarlo nemmeno a mia madre, per evitare di vedere la compassione nei suoi occhi.
C’è ancora un senso di vergogna che accompagna la decisione di abortire?
Sì perché c’è una condanna morale collettiva. E questo, insieme all’obiezione di coscienza, è uno degli aspetti che mette a rischio la giusta applicazione della legge 194. La condanna morale fa sì che si preferisca il silenzio al racconto. Ma con il silenzio non si risolve nulla.
La vergogna viene anche dall’idea che la maternità sia il destino ineludibile di ogni donna?
Esattamente. L’idea contraria, e cioè che una donna possa anche non essere madre, è emersa negli ultimi decenni e non è ancora radicata culturalmente. Nel libro racconto di Francesca, che pur non essendo religiosa, a causa di un aborto cova il senso di colpa per avere fatto qualcosa di sbagliato. Le credenze si passano per osmosi, mi viene da dire. E la maternità viene raramente messa in discussione dalle donne stesse.
Perché ci sono così tanti medici obiettori? E’ solo un problema di coscienza?
No. Non è infatti pensabile che sia attribuibile solo alla coscienza il fatto che abbiamo una media nazionale del 70 per cento di obiettori con punte locali che si aggirano al 90 per cento. I problemi sono molti. Il principale è che la legge dice che il servizio andrebbe comunque garantito, anche in presenza di obiettori, ma non dice come. Inoltre, ci sono ragioni di comodo: chi decide di non essere obiettore si trova spesso a fare quasi esclusivamente aborti a causa della carenza di personale disponibile. Sul piano professionale questo rischia di esser frustrante e faticoso. E quindi si preferisce non farlo.
Quali possono essere le soluzioni per rendere l’aborto un diritto e non una concessione di uno “stato paternalista”?
Bisogna cominciare a parlarne senza abbassare la voce e lo sguardo, si deve capire quali sono numeri e le risorse che possono essere date a un servizio che sia degno di tale nome ed è necessario bonificare un dibattito isterizzato, costruito su fazioni e dichiarazioni insensate. Inoltre bisogna riflettere a fondo sul significato della proibizione: se mi impedisci, o comunque ostacoli, l’aborto è perché vuoi che io non lo faccia. E qual è l’alternativa? Solo una: che io porti avanti la gravidanza. Ma è davvero possibile costringere una donna a diventare madre contro la propria volontà? Perché è questo che sottintendono tutti quelli che si scagliano contro l’aborto. Lo sottintendono ma non lo dicono. Perché dirlo rende evidente quanto sia illegittima e insensata la loro posizione.