Due lettere anonime molto circostanziate annunciano un attentato, su ordine di Messina Denaro, al pm di Palermo che sta processando il generale Mori e i protagonisti della trattativa Stato-mafia. Raddoppia la scorta
L’avvertimento chiaro, senza giri di parole, arriva con due lettere anonime recapitate in procura qualche giorno fa: “Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità. Cosa Nostra ha dato il suo assenso, ma io non sono d’accordo”. A scrivere è, a suo dire, uno dei membri del commando di morte, in grado di fornire una serie di notizie riservate e dettagliate sugli spostamenti quotidiani (e sui punti deboli della protezione) del pm che indaga sulla trattativa mafia-Stato. Sono quelle informazioni precise e circostanziate, assieme ad altre indicazioni su depositi di armi e di esplosivo nascosti in alcune borgate palermitane, che hanno indotto la Prefettura a riunire d’urgenza il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, per rafforzare la scorta e la vigilanza al magistrato più esposto e isolato d’Italia.
Il procuratore di Palermo Francesco Messineo ha convocato immediatamente una riunione tra polizia, carabinieri, Dia e Guardia di Finanza, e Di Matteo è stato ascoltato dai colleghi di Caltanissetta per verificare la corrispondenza tra le notizie fornite dall’anonimo e i suoi effettivi spostamenti. Dopo il procedimento disciplinare avviato dal Pg della Cassazione, ad arroventare il clima giudiziario a Palermo arriva la minaccia, ritenuta assai seria, di un attentato: “Dopo quella iniziativa disciplinare un poco inopportuna, se non addirittura scandalosa – dice il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi – Di Matteo è più isolato che mai. Chi vuole creare preoccupazione e tensione ha antenne sottili per comprendere questo momento e non si fa scrupolo per rendere il clima ancora più pesante”. Ecco perché, continua Teresi, “per sicurezza e per garantire la sua serenità di lavoro, visto che l’ambiente esterno non la garantisce, chi ha responsabilità istituzionali ha ritenuto di prendere provvedimenti”.
Dall’altro ieri Di Matteo ha una nuova blindata, due auto in più sotto casa, l’obbligo dei giubbotti antiproiettile per tutti gli uomini della scorta, rafforzata con altri due agenti: immagini che meglio di mille parole restituiscono un clima di allarme che a Palermo non si viveva da tempo, e che riporta improvvisamente a oltre vent’anni fa, a un’altra stagione di stallo istituzionale risolto con il “botto” di Capaci. E se il procuratore Messineo conferma che “c’è allarme, come per tutto quello che riguarda la sicurezza di ogni magistrato”, in questo caso nel mirino degli anonimi è finito il pm che indaga sulla trattativa mafia-Stato, impegnato, dal 27 maggio prossimo, a processare sullo stesso banco degli imputati boss, politici e uomini delle forze dell’ordine; lo stesso pm che ha appena cominciato la requisitoria contro gli ex ufficiali del Ros Mori e Obinu, accusati di avere favorito la latitanza di Provenzano, in funzione della stessa logica “trattativista” .
Una sovraesposizione alimentata adesso dagli “avvertimenti” giunti in Procura e spediti lo stesso giorno, il 21 marzo, in cui il pg della Cassazione Gianfranco Ciani ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di Di Matteo, accusato di avere violato i “doveri di diligenza e di riserbo”, e il “diritto alla riservatezza” del Capo dello Stato, confermando in un’intervista l’esistenza delle conversazioni intercettate, già svelata il giorno prima dal sito Panorama.it.
È facile intuire, infatti, che le parole di Teresi sull’“ambiente esterno che non garantisce serenità”, si riferiscano anche all’iniziativa di Ciani, citato da Loris D’Ambrosio nelle conversazioni con il senatore Mancino: l’alto magistrato al quale il Quirinale ha chiesto con una lettera di intervenire sull’allora procuratore antimafia Piero Grasso per “coordinare o addirittura avocare” l’inchiesta di Palermo. Intervento che Grasso si è correttamente rifiutato di compiere, ritenendo la richiesta estranea – come lui stesso ha detto – ai suoi doveri istituzionali.
da Il Fatto Quotidiano del 2 aprile 2013