C’è stato un tempo, in Italia, in cui ai letterati non sfuggiva il ruolo cruciale che le fabbriche stavano svolgendo in termini di cambiamento sociale e politico. È successo in un’altra epoca, un’epoca in bianco e nero, un’epoca delicata, quella della ricostruzione post bellica, un’epoca in cui la nazione prendeva coscienza di essersi lasciata alle spalle un mondo rurale per gettarsi, goffamente, verso una rivalsa industriale e tecnologica.
È paradossale che oggi, in questa società in continua trasformazione, con le periferie colme di storie magnifiche che potrebbero essere raccontate, con le problematiche lavorative che fanno la staffetta fra i disagi dell’inquinamento e quelli del precariato, solo una manciata di narratori abbia il coraggio e l’entusiasmo di scriverne, di vivere la strada, di informarsi, di dare vita al cuore pulsante del paese. Probabilmente la colpa è anche degli editori che preferiscono dare voce a maghi, vampiri, ragazzini incatenati coi loro futili amori a un ponte, sparatorie di supercattivi, scritte quasi sempre da uomini e donne che il disagio, le periferie, il posto di lavoro malsano non lo hanno mai visto, nemmeno in cartolina. Del resto, si sa, agli aperitivi letterari di solito non si parla degli sfruttati, quelli appartengono alla vita.
Ma torniamo a quel tempo in bianco e nero. Al 1957, quando appaiono diversi testi importantissimi, stupende testimonianze di cosa fu la narrativa industriale, testimonianze di come la catena di montaggio, le periferie urbane, i turni di lavoro massacranti, l’appartenenza politica possano essere materiale per autentiche opere d’arte. In quell’anno escono “Il bardotto” di Valerio Bertini e “L’integrazione” di Luciano Bianciardi. Nella collezione dei Gettoni einaudiani curata da Elio Vittorini (che pubblicò dal 1951 al 1958 opere di narrativa contemporanea di impronta fortemente nazionale) appaiono “Tempi stretti” di Ottiero Ottieri e “Gymkhana-Cross” di Luigi Davì. Due libri dal registro molto diverso ma che delineano perfettamente la rappresentazione della fabbrica in quanto luogo del lavoro operaio, dalla prospettiva degli operai stessi e non da quella di chi nella fabbrica è entrato dall’ingresso del padrone. La fabbrica come spazio della lotta e dell’impegno politico di una classe operaia in parte idealizzata.
Si tratta di romanzi che meritavano una riattualizzazione e, fortunatamente, un bravo editore, Hacca, li ha ripubblicati. Sia “Tempi stretti” che “Gymkhana-Cross” sono usciti nella collana Novecento.0, diretta da Andrea Di Consoli, che intende stampare e ristampare quel che di novecentesco è ancora stampabile, e guardare con prudenza e con attenzione al nuovo, a questo problematico primo decennio (ormai tredicennio) della letteratura italiana. Come detto dallo stesso editore: ‘Siamo convinti che il ‘nuovo’ sia raro, e che il romanzo ‘assolutamente moderno’ non vada rincorso con i metodi febbrili dell’attuale sistema mediatico ‘usa e getta’. L’editoria di qualità deve saper aspettare. La fretta è cattiva consigliera. Essere bifronti (guardare sia al Novecento che all’oggi, come del resto abbiamo sempre fatto, scoprendo nuove voci di qualità) è l’unico modo che ci rimane per non soccombere di fronte al trauma della moltiplicazione incontrollata delle pubblicazioni. Perché se tutto è letteratura, va da sé che più nulla lo è’.
“Tempi stretti” (http://www.hacca.it/hacca/prodotti/prodotto.php?idProdotto=107) è uno dei primi e più efficaci documenti della cosiddetta letteratura industriale. Un testo che va alle radici del complesso tentativo dell’uomo di far coincidere il lavoro, se non con i propri sogni, almeno con una vita accettabile che preveda un futuro. L’angoscia del tempo ossessiona i personaggi di questo romanzo: operai e operaie che devono battere a una pressa millenovecento pedalate all’ora, cronometristi che li controllano da vicino e capi incaricati di far rispettare le cadenze del lavoro. Anche le pause, come i giorni di riposo, sono schiacciate dall’affanno di ritornare in fabbrica. E persino gli amori, come quello difficile tra Emma e Giovanni, non si sottraggono alla legge martellante delle macchine che non si devono fermare. Sono i ritmi del boom economico vissuto, dal di dentro, nei suoi meccanismi alienanti. Ritmi esterni che si traducono in relazioni sociali frenetiche e si metabolizzano in asmatiche palpitazioni interiori.
Nel libro prevale un senso di ripetitività e monotonia, c’è quel sentimento, descritto da Georges Navel in apertura del romanzo, che è malinconia incolore delle Tute blu: ‘C’è una tristezza operaia dalla quale non si guarisce che con la partecipazione politica’. C’è una Milano ormai scomparsa, una Milano che diventa campagna appena finiscono le Porte, c’è una Sesto San Giovanni ancora industriale e pompante di macchine e ingranaggi, una Sesto orgogliosamente ridefinita ‘la Stalingrado d’Italia’ in cui gli operai scioperano, occupano, partecipano a riunioni di partito e a commissioni interne. C’è un proletariato che trova l’orgoglio nella propria agghiacciante fatica: ‘Si sa che i tipografi hanno una tradizione. Nasce dalla consuetudine con le parole, che favorisce gli autodidatti, dalla possibilità di leggere ciò che stampano per gli altri. L’orgoglio del linotipista più bravo è quello di scoprire lui un errore nel manoscritto e di segnalarlo. I tipografi sono all’avanguardia della classe operaia organizzata’.
I racconti di “Gymkhana-Cross”, che possono essere letti anche come un ‘romanzo a episodi’, raccontano un tempo in cui la classe operaia aveva un suo piccolo paradiso. Giornate lunghe in fabbrica, si lavorava anche il sabato, e senza tante recriminazioni, ma anche serate spensierate a caccia di fanciulle assai poco disponibili, bevute all’osteria con gli amici, le memorabili cappe di fumo stagnante appena sopra il mezzo litro di vinaccio allappante, e poi tante chiacchiere, tante illusioni, mentre la gioventù passava e le ambizioni si tramutavano in un onesto matrimonio con prole e casetta in periferia. Il mondo raccontato da Luigi Davì in questa raccolta di storie minime, minimaliste, si direbbe adesso, è proprio quello di un ipotetico giovanotto d’altri tempi che, seppure con nomi diversi, sembra rincorrersi attraverso tutte le piccole vicende di vita quotidiana che costituiscono l’antologia ideale di un mondo antico e appartato, appena dietro l’angolo e ancora ben visibile nelle foto in bianco e nero dei nostri genitori. Vita di fabbrica, con scherzi goliardici inclusi e voglia di costruire qualcosa, al di là dei ‘pezzi’ di lavorazione.
L’approccio così diverso di Davì rispetto a Ottieri del mondo industriale è logico dal momento che l’autore è in qualche modo un autodidatta letterario. Apprendista meccanico da quando aveva quattordici anni, scrive questi racconti a ventotto anni, mentre vive le prime scintille di rinascita, e sta per entrare a far parte di quella Fiat che già marcia a grandi passi per far crescere Torino e le sue industrie.
La narrativa industriale di quell’epoca in bianco e nero, quando i letterati erano assorbiti tra incubi kafkiani, antropologia della pressa e scherzi guasconi, tra la tristezza della catena di montaggio e l’allegria della fabbrica, sta avendo nuova vita grazie a un editore bravo e coraggioso. Chissà che non sia da stimolo per gli scrittori contemporanei: disertare l’aperitivo e immergersi nella vita delle periferie e del lavoro.