In un lungo colloquio con il Corriere della Sera, il presidente della Repubblica spiega la sua "amarezza" per la fine "surreale" del suo mandato: "Oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili". E su un governo a 5 stelle dice: "Quale governo si potrebbe mai formare sulla base di un 25%"
“Dopo sette anni sto finendo il mio mandato in un modo surreale, trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili, tra il geniale e il demente”. E’ una lunga autodifesa quella che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affida alle colonne del Corriere della Sera. Due pagine per raccontare il punto di vista del Quirinale sullo stallo istituzionale che si è venuto a creare e che con ogni probabilità non si risolverà fino all’elezione del successore di Napolitano.
A cominciare dalla fine, dalle polemiche dalle due commissioni di “saggi” da lui volute e dalla polemica sulla loro composizione. La stessa definizione di ‘saggi’, mai usata da Napolitano, “amareggia” il presidente. E poi la critica sull’assenza di donne che, spiega il presidente della Repubblica, “sfiora il ridicolo”. Non è colpa sua, sembra dire l’inquilino del Quirinale, se quella è la composizione delle forze in campo e se maschi sono i presidenti delle commissioni speciali. Del resto, Napolitano si sente “lasciato solo dai partiti”, sente di avere spiegato già tutto nel suo intervento pubblico al termine dell’ultimo giro di consultazioni, e non capisce le accuse di “presidenzialismo di fatto” e di “golpe bianco” a danno del Parlamento paventato anche dal Movimento 5 Stelle.
Già, il movimento: dalle colonne del Corriere Napolitano risponde direttamente a chi chiede perché non sia stato affidato a loro il compito di formare un governo. Quale governo, scrive il quotidiano di via Solferino, si potrebbe mai formare sulla base di un 25%? Del resto, con una percentuale superiore infinitesima ma molto maggiore nella rappresentanza è naufragato anche il tentativo di Pier Luigi Bersani, di fronte a uno scenario “bloccato” che viene sintetizzato nei rispettivi blocchi dei maggiori partiti: da un lato il Pd e il suo segretario, fermi di fronte alla mancanza di una maggioranza al Senato. Dall’altro la lista Monti, favorevole a far nascere un governo ma solo di fronte all’assenso di democratici e Pdl. Per ultimo proprio il Popolo della Libertà, disposto a sostenere unicamente un governo di larghe intese.
Di fronte a questo stallo, il presidente sceglie di avvalersi di “facilitatori” che, nell’arco di 8-10 giorni (e qui ritorna l’orizzonte temporale ‘limitato’ citato ieri in una nota ufficiale) debbano rispondere a “qualche semplice domanda: davvero non ci sono posizioni convergenti su alcune priorità? Esistono dei punti di divergenza superabili?”. E’ in questo scenario che Napolitano si sente abbandonato dai partiti. L’idea che lui abbia “formato un governo” a danno del Parlamento lo irrita: “Cosa c’entra il Parlamento? Chi lo tocca, si sfoga”. Nell’idea raccontata dal presidente, al contrario, il lavoro dei due comitati “è legato al suo mandato e oltre questo termine non può andare”.
Altro punto centrale dell’autodifesa di Napolitano è la questione dimissioni, di fronte all’accusa di non avere semplificato il passaggio istituzionale facendosi da parte. Il motivo addotto è squisitamente politico: il presidente, scrive il Corriere, “ha deciso di garantire un elemento di continuità, così come un elemento di certezza è per lui rappresentato dall’operatività del governo… Le sue dimissioni “che sarebbero state ampiamente motivate dalla paralisi nella quale si è venuto a trovare” avrebbero fatto a pugni con “l’impegno di offrire un impulso di ‘tranquillità'”.
Le mosse del Pdl – All’interno del partito si fronteggiano i falchi Verdini, Brunetta e Santanché, che già avevano avanzato a Berlusconi l’ipotesi di ritirare Quagliariello dal tavolo dei saggi. Falchi in opposizione alle colombe Letta, Alfano, Schifani e Lupi che perseguono la via del dialogo col Colle. Al centro c’è la preoccupazione per l’elezione di un prossimo presidente “ostile” al Cavaliere, come scrive oggi Repubblica, che temono possa nascere da un accordo tra Pd e 5 Stelle. Nel caso, i candidati papabili sarebbero Zagrebelsky, Rodotà o Prodi.
L'”assalto ai facilitatori” è stato accolto con stupore dal Quirinale, visto che il Pdl aveva accettato la nomina di Quagliariello senza alcun veto. Poi c’è stato il “cambio di rotta”. Le dimissioni di Napolitano rientrano dopo le consultazioni e l’incombenza del prossimo esecutivo, dunque, è a carico del suo successore. Eppure per il Cavaliere la linea è chiara: “O il Pd accetta il governo di larghe intese e un presidente della Repubblica condiviso o si va al voto in estate”. Eppure quello del ritorno alle urne è uno scenario già sfumato. Scarsa la fiducia nei saggi, a cui l’ex premier dà al massimo dieci giorni di tempo. Un tempo suggerito dalle colombe e “concesso” da Berlusconi nella speranza che il Pd si spacchi per aprire alle larghe intese. La priorità rimane una sola: fare presto, visto che le sentenze sono in arrivo.
La successione di Napolitano – Ed è sul prossimo inquilino al Colle che si gioca la partita di Bersani per evitare un governo di larghe intese o un nuovo esecutivo tecnico. Infatti, se l’elezione del successore di Napolitano trovasse la confluenza di Pd, 5 Stelle e “qualche montiano”, come scrive il Corriere, allora il segretario democratico potrebbe rilanciare il centrosinistra e mettere fine alle ipotesi di un governissimo. E il nome che piace anche a Grillo è quello di Romano Prodi. Un candidato ideale per tagliare fuori il Pdl, che interpreta le mosse di Napolitano come un tentativo di prendere tempo ed escludere il centrodestra dall’elezione del successore. Per Bersani e i suoi, insomma, bisogna spingere su un governo di cambiamento tramite il Quirinale. Esecutivo al capo del quale vorrebbe esserci proprio il segretario Pd.