“Il presidente è come Obama: molto bravo nelle relazioni pubbliche, ma non altrettanto nel realizzare le proprie splendide idee. E’ comunque meglio che se non avesse nessuna idea. Il prossimo passo è che diventi adulto e che faccia le cose, quell’uomo dalle belle parole”. A parlare è Boum-Yalagch Olzod, coordinatore della coalizione dei Verdi mongoli (Nogoon Evsel) nonché ‘biofisico e tour manager’, come recita il suo biglietto da visita.

Parla del presidente Tsakhiagiin Elbegdorj, che ha appena revocato al colosso minerario Rio Tinto le licenze di estrazione in una sezione chiave dell’enorme giacimento di Oyu Tolgoj (oro e rame) che, da solo, dovrebbe produrre un terzo del Pil mongolo. Lo Stato desidera ritagliarsi una fetta maggiore della società che sfrutta la miniera, modificando i termini dell’accordo con la multinazionale che ha ora una quota del 64 per cento nel pacchetto azionario.

Boum è un ecologista radicale – per lui la Mongolia dovrebbe rinunciare definitivamente all’attività estrattiva – e il presidente Elbegdorj non necessariamente un novello Chavez. Ma il braccio di ferro tra il Paese che, grazie alle sue risorse naturali, è giudicato da molti analisti la Tigre asiatica del futuro, e una società simbolo del capitalismo globalizzato, rivela che l’Asia orientale non è un terreno di conquista così scontato. Nuovi disegni di legge e prese di posizione dei governi sembrano infatti rendere il contesto economico meno favorevole alle multinazionali occidentali. A seconda dei punti di vista, il fenomeno viene definito ‘nazionalismo antiglobalizzazione‘, ‘protezionismo’ o semplice diritto a riprendere il controllo dei propri destini.

Per capire meglio quanto spirito patriottico e ragioni economiche siano intrecciati, ci trasferiamo dalla Mongolia in Indonesia, dove secondo Asia Sentinel il governo starebbe varando un disegno di legge che limiterebbe l’accesso delle multinazionali statunitensi ed europee al mercato interno. Dietro l’intera vicenda c’è il clan dei Bakrie, che ha appena messo in minoranza la cordata guidata dal britannico Nathaniel Rotschild per il controllo della Bumi, la compagnia mineraria co-fondata nel 2010 e quotata alla borsa di Londra. Aburizal Bakrie, il patriarca di famiglia, è anche candidato alle elezioni presidenziali del 2014.

Un suo potenziale rivale per la carica è Prabowo Subianto, fratello del miliardario Hashim Djojohadikusumo, che ha invece appoggiato Rothschild nella lotta ai vertici della Bumi e che avrebbe controllato parte del board of directors se il finanziere britannico avesse vinto. Si dice che la leva nazionalista abbia giocato un notevole ruolo nel convincere gli azionisti a bocciare il riassetto societario proposto da Rotschild e, a questo punto, Bakrie incassa anche una vittoria politica nei confronti di Djojohadikusumo.

Mentre alcuni mercati si chiudono o sembrano chiudersi, altri si aprono, in una generale ridefinizione dello scenario d’Oriente. Se dall’Indonesia ci si sposta di poco, si arriva Timor Est, Paese a caccia proprio in questi giorni di maggiori investimenti stranieri con due progetti: un nuovo porto e l’espansione di un aeroporto. I capitali saranno pubblici-privati e a sovrintendere l’intera operazione ci sarà l’IFC, un’agenzia della Banca Mondiale.

Il 6 marzo, l’Unione Europea e la Thailandia hanno intanto avviato le trattative per aprire un’area di libero scambio. Bangkok ha già accordi simili con Cina, India, Giappone, Corea, Australia e Nuova Zelanda, e l’Europa può a questo punto puntare a incrementare la propria quota di investimenti nel Paese asiatico, che ammonta già a 14 miliardi di euro. Mongolia, Indonesia, Timor Est e Thailandia sono esempi di un’Asia Orientale che, dal punto di vista dell’economia globalizzata, è complessa e in continua ridefinizione. Quale poi sia la ricetta migliore per la gente che vive in questi Paesi, è tutto un altro discorso.

di Gabriele Battaglia

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