E’ notte e nel reparto di ostetricia e ginecologia di un ospedale della provincia di Pordenone una donna sta molto male dopo l’intervento per l’interruzione volontaria di gravidanza. L’ostetrica teme un’emorragia e chiede inutilmente l’intervento della dottoressa in turno. La donna però si appella all’obiezione di coscienza da cui si sente tutelata. Alla fine deve intervenire il primario del reparto che presta soccorso alla paziente.
Il 2 aprile la sesta corte penale della Cassazione ha condannato a un anno di reclusione e all’interdizione dall’esercizio della professione medica la dottoressa che quella notte rifiutò di dare le cure mediche alla paziente ricoverata. La Suprema corte ha infatti ritenuto che l’obiezione di coscienza riguardi solo la fase dell’intervento chirurgico fino all’espulsione del feto e della placenta, non i momenti precedenti o successivi l’interruzione di gravidanza.
Fino a questa sentenza, l’estensiva interpretazione dell’articolo 9 della 194 che prevede l’obiezione, ha lasciato molte donne prive di assistenza medica negli ospedali italiani prima o dopo aver abortito, fino al verificarsi di situazioni assurde come l’obiezione dei portantini e di quegli infermieri che nemmeno intervengono nell’iter dell’Ivg.
Nel libro “Abortire tra obiettori” (di Laura Fiore, Tempesta editore) sono raccontate situazioni in cui viene leso il diritto delle donne, umano prima che legale, di ricevere assistenza medica e insieme a esso viene tolta ogni dignità e rispetto. Nell’ottundimento delle coscienze, sta avvenendo in Italia una sorta di moderna inquisizione contro le “streghe” che abortiscono.
L’obiezione di coscienza ormai riguarda l’80 per cento dei ginecologi nel sud Italia e il 70 per cento nel nord. Se non ci saranno risposte politiche adeguate, nelle strutture pubbliche italiane tra meno di cinque anni non sarà più possibile ricorrere all’aborto legale. Se così fosse si riaprirebbe lo scenario ipocrita e discriminatorio degli anni che hanno preceduto la legge 194: le donne con possibilità economiche potranno abortire all’estero o in strutture private, quelle meno abbienti dovranno ricorrere all’aborto clandestino, esporsi a rischi di salute e di vita. Le precarie, le immigrate, le meno abbienti torneranno a morire di aborto (e ci sono già casi tra le immigrate).
Riguardo questo problema non c’è stata nessuna risposta politica. Nonostante i rischi per la salute delle donne, le uniche iniziative istituzionali hanno riguardato i compromessi fatti sulla pelle delle donne con i movimenti contro l’aborto legale (diamogli finalmente l’esatta denominazione) che chiedono di entrare nelle strutture pubbliche dove si pratica l’Ivg.
Sono seguiti attacchi ai consultori – come sta avvenendo da anni nel Lazio – o protocolli per migliorare l’iter dell’Ivg che non affrontano il problema dell’obiezione di coscienza quando più che il diritto di una scelta individuale, diventa ostacolo all’applicazione della 194 e al diritto di scelta delle donne. Le difficoltà sono soprattutto per l’aborto terapeutico per le malformazioni del feto. Le donne sono costrette a recarsi da una struttura sanitaria all’altra, mentre le liste e i tempi di attesa si allungano, e il tempo è poco, e i ginecologi che applicano la 194 sono lasciati soli con un enorme carico di lavoro. Sui problema della mancanza di regolamentazione del numero di medici obiettori, sono impegnati da anni i ginecologi della Laiga che hanno affiancato l’Ippf nel ricorso al Comitato europeo per i diritti sociali (Consiglio d’Europa). In attesa che l’Europa si pronunci (ci vorranno circa 18 mesi), questa sentenza della Cassazione ha fatto almeno luce su quanto avvenuto quella notte a Pordenone quando l’obiezione di coscienza è divenuta un’omissione di coscienza.
di Nadia Somma