La denuncia viene da un rapporto di Legambiente, secondo cui agli enti pubblici va solo l'1% del giro d'affari dei privati. Colpa di concessioni vecchie e sbilanciate a favore dei privati. Casi limite in Puglia, Liguria, Campania e Basilicata. Il Lazio, invece, ha adottato il triplo canone
Un business da oltre 2 miliardi di euro l’anno: l’acqua in bottiglia è sempre più un affare per le aziende che operano sul territorio italiano. Ma solo per loro. Allo Stato, infatti, non restano che poche gocce, neanche l’1% di tutti questi soldi. La denuncia viene da Legambiente e Altreconomia, e dal dossier “Acque in bottiglia, un’imbarazzante storia italiana”. La sua massiccia produzione (oltre 12 miliardi di litri all’anno) ha un impatto ambientale quantificabile nel consumo di 6 miliardi di bottiglie di plastica e 456mila tonnellate di petrolio, nonché nell’emissione nell’atmosfera di 1,2 milioni di anidride carbonica. Acqua preziosa per le industrie, acqua però svenduta dall’Italia. Ci sono Regioni, come ad esempio la Puglia e la Liguria, che incassano davvero spiccioli dalle concessioni: 20mila euro nel primo caso, addirittura 3mila euro nel secondo. “Eppure parliamo di un bene che viene preso dal suolo pubblico e imbottigliato. E’ chiaro che le aziende hanno delle spese relative ai macchinari, ai trasporti, al personale. Ma ciò non giustifica una simile sproporzione nella distribuzione dei ricavi”, afferma Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente.
La colpa, però, non è dei privati, ma delle Regioni che adottano canoni troppo vantaggiosi per le società, prevedendo un criterio in funzione degli ettari sfruttati e non dei litri imbottigliati; o fissando tariffe più basse del dovuto. Il Lazio, infatti, è l’unica Regione che adotta il triplo canone, ovvero quello stabilito dalla Conferenza delle Regioni nel 2006, e che prevede una tariffa da 1€ a 2,5€ per metro cubo di acqua imbottigliata, da 0,5€ a 2€ per metro cubo di acqua emunta e 30€ per ettaro di superficie concessa. Ci sono comunque altre Regioni virtuose: 9 in particolare (Trentino Alto-Adige, Valle d’Aosta, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Sicilia) che prevedono un doppio canone, secondo le linee guida nazionali.
Ma nel resto d’Italia queste direttive sono disattese. E ciò si traduce in un ‘regalo’ di svariate decine di milioni di euro alle industrie. Addirittura 70 milioni di euro ogni anno, secondo il calcolo di Legambiente (che però ipotizza un canone molto alto, di 10€ per metro cubo). Ma anche fermandosi ad una più realistica cifra di 2,3€ a metro cubo (quella applicata dal Lazio), sono almeno 15 i milioni di euro a cui rinunciano le amministrazioni locali. Nella classifica stilata da Legambiente la Provincia autonoma di Bolzano, la Liguria, l’Emilia-Romagna, il Molise, la Puglia e la Sardegna (che prevedono solo il canone in funzione degli ettari concessi) sono bocciate senza appello. Ma è in Campania, Basilicata e Piemonte, tra i maggiori produttori in Italia, che si registrano i differenziali massimi tra quanto incassato attualmente e quanto si potrebbe incassare con tariffe più eque: addirittura 3 milioni di euro ogni anno in Campania, dove un miliardo e mezzo di litri d’acqua vengono pagati solo 30 centesimi al metro cubo; tariffa che sale (si fa per dire) a 60 centesimi in Basilicata e 75 centesimi in Piemonte.
“E’ una situazione illogica sotto tanti punti di vista”, sostiene Zampetti: “Innanzitutto a livello di competitività: è assurdo che ci siano tali discrepanze fra un territorio e l’altro, bisognerebbe uniformare il mercato. Adeguare i canoni di concessione tutelerebbe la dignità di un bene prezioso come l’acqua. E porterebbe nelle casse delle amministrazioni locali risorse importanti, di cui ci sarebbe grande bisogno in un momento economico così delicato. Ma nessuno fa nulla da anni. Davvero non riusciamo a capire il perché”.
Una spiegazione prova a fornirla Giancarlo Chiavazzo, responsabile scientifico di Legambiente Campania: “L’acqua in bottiglia è l’altra faccia della medaglia dell’acqua del rubinetto che non viene utilizzata. Le responsabilità sono tutte della classe dirigente: non si è mai fatto nulla per rendere più competitiva e appetibile dal punto di vista percettivo l’acqua corrente. Così si è agevolata l’esplosione di questa bolla dell’acqua in bottiglia. E nel frattempo, in questo settore effimero e poco sostenibile dal punto di vista ambientale, dove guadagnano solo i privati, si è creata occupazione che adesso non si può più andare a toccare”. Lo dimostra il caso di una Regione ‘virtuosa’ come il Veneto, esosa nei confronti delle aziende ma solo sulla carta: qui, nel triennio 2013-2015 (come già tra il 2010-2012), il canone di 3€ al metro cubo è stato dimezzato “in considerazione del protrarsi delle condizioni di crisi e dell’esigenza di garantire la difesa dei livelli occupazionali”.
E una conferma importante arriva anche da Marcello Pittella, assessore alle Attività produttive della Regione Basilicata: “Siamo pienamente consapevoli del problema: la Basilicata, come altre Regioni, svende la propria acqua. Ma possiamo farci ben poco: forse in passato alcune grandi aziende hanno speculato, ma adesso tutte le industrie del comparto sono in crisi, almeno da noi. In questa congiuntura economica alzare i canoni significherebbe mandare in mobilità centinaia, se non migliaia di lavoratori. Per altro, quello che incasseremmo dalle concessioni saremmo costretti a spenderlo in cassa integrazione. Ora come ora non ci sono alternative a mantenere gli attuali canoni, che sono molto bassi. In futuro, se ci sarà uno spiraglio per farlo, non escludiamo di aumentarli. L’errore c’è, ma è stato fatto in passato a livello nazionale”, conclude Pittella. “E’ la storia del nostro Paese, purtroppo: descriveremmo la fisionomia di un’Italia diversa e migliore, se potessimo tornare indietro e non commettere gli stessi sbagli”.