La storia è per certi versi straordinaria: per altri, terribilmente ovvia.
Alberto Sordi era notoriamente assai sorvegliato nelle spese. Ma era anche molto devoto. Così non stupisce troppo che l’unico oggetto d’arte di vero pregio che possedesse fosse una Madonna: non addirittura una «pala» d’altare (come si è scritto), ma un quadro da stanza del secondo Quattrocento senese, probabilmente un’opera legata al raro Francesco di Giorgio Martini.
Sabato il Corriere dava in prima la notizia che il quadro era sparito dalla casa dell’attore, da settimane al centro di tristi vicende. A denunciarlo l’ex ministro per i Beni culturali Francesco Rutelli: «Sordi ed io alla fine degli anni Novanta eravamo diventati grandi amici, festeggiavamo il nostro compleanno insieme, io sono nato il 14 giugno e lui era nato il 15. Comunque, un giorno mi invitò a casa sua e mi mostrò con orgoglio la splendida tavola dicendomi: “È il pezzo a cui tengo di più, sono legatissimo a questo gioiello. Sappi che, quando non ci sarò più, voglio che sia regalata a Roma, alla nostra città. Deciderai poi tu dove…”».
Già la domenica il colpo di scena: il quadro sta nel più insospettabile dei luoghi, quell’Appartamento pontificio in cui (evidentemente a ragione) papa Francesco rifiuta di trasferirsi. Ma com’è stato possibile? Semplice, il 4 febbraio 2009 la sorella di Sordi fu ricevuta in udienza da Benedetto XVI, il quale gradì molto il semplice dono consegnatogli dalla pia signora: la tavola senese!
Rutelli, appreso del ritrovamento, si è subito chinato al bacio dell'(ex) sacra pantofola: «è confortante rispetto ai rischi di dispersione che l’opera abbia avuto una destinazione tanto autorevole», limitandosi ad auspicare «che quest’opera venga resa accessibile a tutti secondo quella che era la volontà di Alberto».
Una dichiarazione un po’ troppo arrendevole, specie in bocca ad un ex ministro per i Beni culturali della Repubblica. Come ha puntualmente notato il noto avvocato divorzista Cesare Rimini (interpellato dal Corriere in quanto collezionista e giurista): « Sicuramente è avvenuto tutto in buona fede, ma Aurelia Sordi e lo Stato della Città del Vaticano hanno oggettivamente commesso una violazione gravissima. Gli appartamenti papali si trovano in territorio vaticano, per noi straniero: e dallo Stato italiano possono uscire solo opere che abbiano un attestato di libera circolazione. Giustamente Rutelli chiedeva che ci fosse una adeguata notifica di interesse culturale su quella tavola. Di fatto gli eredi Sordi hanno illecitamente, anche se con ottime intenzioni, esportato un bene culturale di notevole valore in un altro Stato».
Negli stessi mesi in cui la Madonna Sordi veniva illegalmente esportata in Vaticano, il governo Berlusconi comprava a carissimo prezzo un Crocifisso ligneo implausibilmente attribuito a Michelangelo, esaltandone il valore religioso ed esibendolo in pompa magna proprio a Ratzinger.
E oggi abbiamo come ministro per i Beni Culturali un ex rettore della Cattolica che si autodefinisce ‘guelfo’, che esorta i suoi soprintendenti a prestare opere pubbliche per iniziative confessionali nell’ambito dell’Anno della Fede, e che non ha nulla da obiettare contro i vescovi che vandalizzano le loro cattedrali monumentali in nome del rinnovamento liturgico.
Come si comporteranno dunque il Ministero per i Beni culturali e la Procura di Roma: la legge sarà uguale per tutti? Si riuscirà ad ottenere una sollecita restituzione dell’opera uscita illegalmente dai confini della Repubblica? Si capirà se qualche occhio si è chiuso (e, se sì, quanti e quali)?
O il patrimonio artistico di uno Stato laico protetto dall’articolo 9 della Costituzione dovrà per l’ennesima volta chinare il capo di fronte all’arroganza vaticana?
Vedremo, ma qualcosa mi dice che la morale sarà sempre quella del mirabile sonetto scritto dal Belli nel 1835: « Cosa fa er Papa? Eh, ttrinca, fa la nanna, / Taffia, pijja er caffè, sta a la finestra,/ Se svaria, se scrapiccia, se scapestra, / E ttiè Rroma pe ccammera-locanna. … / Lui l’aria, l’acqua, er zole, er vino, er pane, / Li crede robba sua: È tutto mio; / Come a sto monno nun ce fussi un cane».