Sono stati due mesi poco propizi per la scrittura. Prima le elezioni, che mi hanno fatto desiderare un “piccolo sonno”, poter dormire per una decina di giorni, svegliarmi che tutto era stato fatto, non vivere l’emozione-delusione dei risultati elettorali. Avrei voluto svegliarmi con un nuovo governo e con la certezza di non ritrovarmi più in Tv il ghigno detestabile del Cavalier trionfante. Ho votato e poi delusissima mi sono per un po’ isolata dal mondo.
Poi la scomparsa di un amico, più giovane di me, di me più coraggioso. Come il personaggio di una fiaba, ha combattuto contro mostri più grandi di lui con una forza e un coraggio che me lo facevano ammirare, oltre che amare. Era e resta un amico. E mi manca.
Infine è arrivato un fallimento nel lavoro.
Dopo tutto questo, il mio fisico ha ceduto e mi sono ammalata per due settimane. Ho dormito tantissimo, il mio piccolo sonno auspicato a febbraio è arrivato alla fine di marzo, ma accompagnato da un febbre persistente.
Ritorno alla luce da poco, tra le mani il libro che mi ha traghettato dalla tristezza alla primavera. Si chiama Un bel posticino, lo ha scritto Carlo Zanda. Il sottotitolo recita La Spoon River di Hermann Hesse.
Cosa ha fatto Carlo Zanda? Se ne è andato a Montagnola, piccolo paese ticinese sopra Lugano, dove Hesse ha vissuto dal 1919 al 1962, anno della morte e dove lo scrittore scelse di essere sepolto, acquistando nel piccolo cimitero di Sant’Abbondio, come scrisse in un articolo per un giornale tedesco, “un bel posticino”.
Carlo Zanda è andato al cimitero e ha fotografato le tombe di coloro che hanno vissuto negli stessi anni di Hesse e ha ricostruito con pazienza e arguzia le loro biografie. C’è Natalina che per anni ha accudito lo scrittore con la screziatura discreta delle donne intelligenti, c’è il medico Plinio, c’è l’amico Ball, il parroco don Cesare, l’elettricista Balzelli e tanti altri. Ogni personaggio una scheda, una foto, un piccolo luminoso racconto. Incastonati tra queste, come lampi di luce, le opere che Hesse viene scrivendo in quegli anni. Da Demian al Giuoco delle perle di vetro, passando per Siddartha, Narciso e Boccadoro, Il lupo della steppa.
La bravura di Zanda sta nel riuscire a restituire a queste persone la loro umanità viva e preziosa, che nulla ha da invidiare alla gloria dello scrittore, e nella sapienza con cui intreccia la potenza della natura negli affacci mozzafiato sulla Collina d’oro, la vita quotidiana della gente di Montagnola e la riservatezza di Hesse, non priva di crepe e di allegre aperture. Le tante foto in bianco e nero, un po’ sfocate, danno al libro un ritmo riposante.
Bellissima è la storia dell’Officina Bodoni, in cui il tipografo-editore Hans Mardersteig, originario di Weimar, realizza il sogno di stampare con il torchio a mano i più bei libri del mondo e sceglie per farlo il villaggio di Montagnola. Questa è anche la storia di Eugenia Petrini, assunta quindicenne dall’editore raffinato ed esigente per la preparazione della carta, e quella del suo più prezioso collaboratore, lo zurighese Friederich Spiess. Quando Arnoldo Mondadori propone a Mardersteig di trasferirsi a Verona e iniziare la pubblicazione di 49 volumi dell’opera d’Annunziana, l’Officina Bodoni chiude la sua sede di Montagnola e si trasferisce all’ombra degli stabilimenti mondadoriani. Ma Eugenia, nonostante le insistenze del suo datore di lavoro, resta in Ticino.
La qualità della scrittura di Zanda rende questo libro bello e poetico, oltre che appassionante. Ho imparato molte cose non solo su Hesse e sull’ambiente che ha visto nascere i suoi romanzi più importanti, ma anche sulla cultura di quegli anni, sulla vita contadina, sul mondo che si butta nella guerra come se ne fosse affamato. E la casa Rossa, dove Hesse vive con Ninon, la terza moglie, diviene il luogo d’incontro di profughi, esiliati, intellettuali. Bruno Walter, il grande direttore di orchestra, scelse nel 1938 di essere seppellito anche lui a Montagnola. Ma la vita dei grandi continua ad intrecciarsi con le altre, il postino che deve portare a piedi spingendo una carriola, i telegrammi di complimenti per il ricevimento del Nobel; con lui Hesse si scusa per l’enorme mole di lavoro a cui lo costringe questo riconoscimento e comunque la sua inarrestabile corrispondenza.
Ogni tentativo di essere esauriente si scontra con la ricchezza di questo libro. Ora che sto bene, sono lucida e di nuovo lo tengo accanto a me, capisco perché abbia rappresentato il filo che mi ha tirato fuori dall’accidiosa disillusione in cui ero finita. Perché qui la vita mostra tutte le sue facce, quelle vere, segnate dalle rughe del tempo e dalla luce della speranza e improvviso rinasce l’orgoglio di appartenere al genere umano e la necessità di rimettersi all’opera.