Nelle sale dall'11 aprile l'ultimo film di Alina Marazzi. Attraverso le storie di Pauline (Charlotte Rampling) ed Emma (Elena Radonicich), la regista indaga l'ambivalenza del sentimento materno al di là dei modelli imposti da una società che racconta solo il lato positivo del diventare madri
“Non sono più una coppia, una coppia è due. Loro sono in tre”. Basta una frase, a volte, per descrivere una condizione per certi versi innegabile, ma al tempo stesso difficile da accettare perché porta in sé la consapevolezza di una nuova identità ancora tutta da costruire. Di maternità, indagata anche nella sua dimensione sociale e della necessità di non lasciare sola la donna in questo percorso, parla l’ultimo film di Alina Marazzi ‘Tutto parla di te‘, nelle sale dall’11 aprile. Un film a cui si ispira anche il webdocumentario ‘Tutto parla di voi‘, visibile sul sito de Il Fatto Quotidiano.
Attraverso la storie di Pauline ed Emma, distanti per età, ma vicine per esperienze e stati d’animo, il film racconta l’ambivalenza del sentimento materno, fatto di grande amore, ma anche di profonde e inconfessabili contraddizioni.
Pauline, interpretata da Charlotte Rampling, torna a Torino per la prima volta dopo molti anni e riprende i contatti con Angela (Maria Grazia Mandruzzato), che dirige il centro per la maternità “Il melograno”. Pauline è decisa a intraprendere una ricerca sui problemi delle mamme d’oggi, a partire dalle testimonianze, dai video e dalle fotografie raccolti da Angela. Tra le donne che frequentano il centro c’è Emma, interpretata da Elena Radonicich, una giovane danzatrice, ma anche una mamma in crisi profonda. Tra le due si instaura un rapporto di complicità che permetterà a Emma di ritrovare se stessa anche nella sua nuova dimensione di madre e porterà Pauline a fare i conti con il proprio tragico passato. Quella che per Emma è una ricerca affannosa di una nuova identità, per Pauline, ormai vicina alla vecchiaia, è un percorso a ritroso per chiudere il cerchio della sua vita.
“In ‘Tutto parla di te’ – afferma la regista Alina Marazzi – ho voluto raccontare quel sentimento in bilico tra l’amore e il rifiuto per il proprio bambino che ogni madre conosce e la fatica che si fa ancora oggi ad accettarlo e ad affrontarlo, perché va contro il senso comune di un legame primordiale”. Così come è stato per il film precedente, ‘Vogliamo anche le rose‘, l’idea di fondo della regista è quella di “aprire una riflessione sui modelli con cui la donna deve confrontarsi e sui cliché che li accompagnano”.
E proprio la maternità, descritta per lo più come condizione idilliaca e di piena realizzazione femminile, non fa eccezione. “Gli stereotipi che ruotano intorno alla figura della madre non corrispondono sempre alla realtà delle cose”, prosegue Alina. “L’ho capito quando sono divenuta mamma anch’io – ammette l’autrice – Non c’era un esempio indiscusso nel quale riconoscermi, ogni identificazione sarebbe stata una forzatura. Così come sono una forzatura quei modelli culturalmente imposti, che portano la donna a tacere sulle difficoltà che accompagnano la nascita di un figlio, per decantarne solo gli aspetti positivi, nascondendo quelli conflittuali”.
“In Italia sono oltre 90.000 le donne che soffrono di disturbi depressivi e di ansia nel periodo perinatale – afferma Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano e referente scientifico del progetto dell’osservatorio Onda “Un sorriso per le mamme”. “Il 70% delle madri manifesta nei giorni immediatamente successivi al parto sintomi lievi e transitori di depressione, in una forma benigna chiamata “baby blues”, che tende a scomparire spontaneamente nell’arco di una decina giorni – spiega Mencacci – Ben più gravi e duraturi sono invece i sintomi della depressione post partum, che colpisce in media il 16% delle neo mamme”. Per questo disturbo sono nati in Italia sei centri di eccellenza a Milano, Torino, Pisa, Ancona, Napoli e Catania.
Essere madri quindi, come evoluzione e ricerca di una nuova dimensione, ma anche come riconoscimento del proprio valore sociale. Il film parte anche da questo presupposto: dall’idea che la responsabilità di crescere un figlio o una figlia, oggi affidata quasi esclusivamente alla madre, dovrebbe interessare e coinvolgere l’intera società, a partire dal padre, considerando i bambini come futuri cittadini consapevoli. Solo una presa in carico collettiva della maternità, dalla gravidanza fino all’ingresso nel mondo della scuola, potrebbe restituire alla donna che diventa mamma la centralità che merita.