Un corpo fatto bruciare troppo in fretta, 140 cadaveri con i quali se la sarebbe vista la storia negli anni a venire, un’archiviazione giudiziaria frettolosa dove l’ultimo problema era avere qualcosa che assomigliasse alla verità. Il resto sono e restano supposizioni. La verità più comoda è, in caso di tragedia aerea o navale, parlare di errore umano. E’ la scorciatoia. Succede che poi qualcuno si ostini a dire no. Per Ustica ci ha pensato un ottimo collega, Andrea Purgatori. Il disastro del Moby Prince, la più grande tragedia della marineria italiana, la testardaggine di due figli rimasti orfani troppo presto. Si chiamano Angelo e Luchino Chessa, il loro papà era il comandante di quella nave che finì fuori rotta.
La cosa che si avvicina di più alla verità emerge oggi da una perizia: il traghetto Moby Prince si trovò davanti uno sbarramento di navi che avevano appena caricato armi a Camp Darby, e che non dovevano essere in rada. Nessuna novità, io lo scrissi nel 2006, con l’aiuto di un magistrato ostinato, Antonio Giaconi, e di un ex pm, oggi avvocato, Carlo Palermo. C’erano manovre di guerra la sera del 10 aprile 1991 nel porto di Livorno. E quelle 140 persone morirono per una manovra di quella guerra invisibile. Ma come per il Cermis – e più o meno per Ustica – guai mettere a rischio gli equilibri internazionali.
Le navi a Livorno in porto c’erano legittimamente. Esistono degli accordi presi nell’immediato dopoguerra, che non impongono nessuna comunicazione. La base di Camp Darby ha un canale che porta le navi fino al porto. E quelle stesse navi, a differenze delle navi civili, possono muoversi o restare in rada senza fornire nessuna rotta. E’ un diritto. Non si discute.
Quello che ci troviamo ancora una volta a discutere sono anni di insabbiamenti. Gli armadi, in questo Paese, devono rimanere chiusi. Li hanno aperti nell’ex Unione sovietica. Lo hanno fatto gli Stati Uniti. In Italia gli armadi della vergogna, quelli pieni di fascicoli dei servizi segreti più o meno deviati, non possono essere toccati. Così non sapremo mai cosa accade a Bologna, Ustica, perché e per volontà di chi non venne liberato Aldo Moro, chi mandò a morire il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, chi alimentò gli esplosivi della mafia per far fuori Falcone e Borsellino.
Sarebbe un atto di civiltà se un governo – non me lo aspetto né da Bersani (o chi per lui) né da Berlusconi (o chi per lui) – aprisse finalmente quei fascicoli. Ci aiuterebbe a capire un po’ della storia di questo Paese, senza la quale è difficile immaginare un futuro.
Ne discuteremo ancora. Lo spunto è il Moby, ma solo perché di quella tragedia fui testimone. Ero un ragazzo. Un vecchio cronista del Tirreno, Furio Domenici, caratteraccio, ma scarpe consumate a prendere appunti, mi chiamò la sera stessa dell’incidente. “Mettiti la macchina fotografica al collo, domani saliamo su quella nave e andiamo a vedere cosa diavolo è successo”. Salimmo con le tute della Labromare, la ditta che insieme ai vigili del fuoco cercava di spegnere gli ultimi incendi a bordo e che poi l’avrebbe bonificata. Non capimmo assolutamente niente, vedemmo qualcosa che assomigliava vagamente a quelle che erano state vite umane nel salone: fu come entrare in un forno crematorio. Quell’odore me lo porto ancora appresso. E non passerà mai, credo. Forse un giorno, se ci diranno cosa accadde e perché 140 persone che dovevano raggiungere la Sardegna morirono.