Nella prima decade di aprile 1991 il porto di Livorno più che un porto civile somiglia a una base militare statunitense. Numerose imbarcazioni militarizzate provenienti dal Golfo Persico (navi mercantili riadattate per il trasporto di materiale bellico) si trovano ancorate nella rada livornese. Il loro nome e numero viene annotato sul registro della Capitaneria di Porto. Sono navi cariche di armi ed esplosivi, sottratte a qualunque forma di ispezione e controllo da parte delle autorità italiane, come riporta la nota inviata dal comandante Harpole, del Leghorn Terminal di Camp Darby, alle autorità portuali italiane: su quelle navi, chiarisce Harpole, e soprattutto sul loro prezioso carico di armi e munizioni, veglia e vigila l’imponente sistema di telecomunicazioni militari dell’Alto Tirreno. La prima Guerra del Golfo è da poco finita e il carico stivato in queste navi è destinato al più grande deposito di materiale bellico americano dell’area mediterranea: Camp Darby, appunto. Teniamo a mente questa comunicazione di Harpole, ci torneremo più tardi.
Alcune di queste imbarcazioni, come la Cape Flattery ancorata verso Calambrone, sono navi del tipo “LASh” (Lighter Abroad Ship): in sostanza, mezzi in grado di sbarcare e imbarcare chiatte marittime a pieno carico mediante gru a portale installate sulla nave stessa, quindi senza l’uso di attrezzature portuali. Particolare non trascurabile: per evidenti ragioni di sicurezza, queste operazioni di movimentazione di merci pericolose non possono interferire con le rotte civili e commerciali, né avvenire dopo il tramonto.
Non è così, in realtà. Numerosi spostamenti di materiale bellico avvengono quotidianamente all’interno delle acque portuali di Livorno nella prima decade di aprile 1991: movimenti annotati sul registro dell’Avvisatore Marittimo e anche sul registro Comando del Porto Darsena del Comune di Pisa (documento cartaceo nel quale vengono annotare progressivamente, ogni giorno dell’anno, i passaggi di natanti al ponte di Calambrone lungo il canale Navicelli, che collega la base Usa di Camp Darby alle acque portuali).
Dunque: nelle giornate del 3, 5, e 9 aprile l’Avvisatore Marittimo annota l’uscita da porto di chiatte destinate alla Cape Flattery; ma sul registro del ponte di Calabrone, fra la base di Camp Darby e il porto, i passaggi registrati sono invece ben più numerosi.
E arriviamo al 10 aprile 1991, il giorno della tragedia del Moby Prince. Alle ore 10.15 del mattino, annota l’Avvisatore marittimo, “escono due chiatte piene per il Cape Flattery”. Dunque, quel giorno la nave militarizzata non starebbe trasferendo materiale alla base di Camp Darby ma, al contrario, starebbe imbarcando materiale bellico. E arriviamo alla maledetta sera: quando il traghetto passeggeri Moby Prince lascia il molo diretto a Olbia l’orologio segna le 22.14, ufficialmente non è in corso alcuna movimentazione di materiale bellico. Nessuna imbarcazione viene segnalata in movimento sul registro dell’avvisatore marittimo, a parte il traghetto Navarma.
Eppure c’è un gran traffico in mare, in quel momento, proprio lungo la rotta del Moby Prince. Numerose imbarcazioni senza nome e identità solcano pericolosamente le acque dell’alto Tirreno. Hanno tutte un appuntamento, quella sera, in un punto preciso della rada di Livorno. Alcune di esse rischiano la collisione con altri natanti: hanno fretta, c’è una missione da portare a termine, rapidamente. Di notte, al buio, lontano da sguardi indiscreti. Strani disturbi creano una sorta di cono d’ombra sui monitor dei radar, continue interferenze rendono difficili le comunicazioni via radio. Un elicottero militare non italiano, osservato da molti testimoni, sorvola la zona, osservando la scena e controllando le operazioni. Ma qualcosa va storto. Da terra, due ufficiali della Marina osservano che mentre il Moby Prince sta allontanandosi dall’ormeggio, al largo del porto compaiono strani bagliori simili a un incendio. Ma cosa sta succedendo nelle acque del porto di Livorno?
Dopo la collisione, i primi soccorritori vengono quasi investiti da imbarcazioni in fuga; uno di loro, un ormeggiatore, osserva un piccolo natante immobile sull’acqua, defilato, a poca distanza dalla petroliera in fiamme, forse alle prese con un incendio a bordo: non ha dubbi, si tratta di una chiatta.
Un ufficiale della guardia di finanza, fra i primi ad accorrere in rada dopo la collisione fra Moby Prince e Agip Abruzzo, conferma al processo quanto già scritto in un verbale trasmesso nel 1991 alla Procura di Livorno (documento inspiegabilmente scomparso dal fascicolo): visibilità perfetta, c’era una nave in quel momento che stava movimentando armi. Questa nave ha un nome: Cape Flattery, una delle navi militarizzate Usa in rada a Livorno. Forse qualcuno aveva deciso di fare gli straordinari, continuando di notte la movimentazione del materiale da Camp Darby?
No. Un nuovo pezzo importante del puzzle arriva dal registro delle navi in transito per il canale Navicelli: il giorno 10 aprile entrano ed escono dal canale due yacht e due chiatte, in orari compreso fra le 9.30 e le 15.45; poi più nulla, il canale rimane chiuso e nessun mezzo nautico transita da e per Camp Darby fino al giorno successivo 11 aprile quando, alle ore 9.10, viene registrata la prima uscita di un rimorchiatore dal canale Navicelli verso il porto.
Questo significa una cosa molto semplice e seria: la movimentazione di armi e materiale bellico di proprietà del governo Usa in corso la sera del 10 aprile a Livorno riguardava il trasbordo di materiale destinato però non a Camp Darby, ma altrove. Era un’operazione di altro tipo, con altre finalità, che prevedeva una diversa destinazione finale della merce e altri clienti. Quali destinazioni, quali clienti? Da chi organizzata, con quali coperture? Autorizzata da chi? Chi controllava la movimentazione di armi che avveniva in un porto civile italiano, quella maledetta sera? Stando alla comunicazione del comandante Harpole, Camp Darby vedeva tutto. Dopo la tragedia, alla reiterata richiesta di avere una copia dei tracciati radar di quella sera, le autorità statunitensi hanno risposto: “Camp Darby (la più grande base militare Usa del Sud Europa, n.d.r.) non dispone di apparati radar”.
“Ore 22.27: il M/T Moby Prince entra in collisione con la M/C Agip Abruzzo ancorata in rada. Dalla collisione si sviluppa un violento incendio che prende tutte e due le navi. Informata Comparare, agenzia Panessa, agenzia Ghianda, rimorchiatori”. Romeo Ricci, l’Avvisatore marittimo di turno quella sera, compila con sintetica precisione il quadro drammatico che sta osservando dal sua posto operativo. Osserva, sgomento e incredulo, il mare. Ma come fa un traghetto ad infilarsi nella fiancata di una petroliera, pensa come tutti in quel momento… Viene scosso da un’improvvisa vibrazione seguita da un rombo cupo, che fa tremare le sottili pareti in lamiera della sua postazione: un elicottero militare abbandona la rada dove è appena avvenuta la collisione, dirigendosi verso nord. Ascolta le comunicazioni via radio sul canale 16, i silenzi del comando della Capitaneria di porto, le urla disperate degli ormeggiatori che salvano il mozzo del Moby Prince e chiedono alla Capitaneria di intervenire perché “…c’è gente a bordo da salvare”, senza ottenere risposta…
Ma che sta succedendo? A un certo punto, Romeo Ricci prende nuovamente in mano il registro dell’Avvisatore marittimo del Porto di Livorno, rilegge febbrilmente la sua annotazione. Sa che il suo lavoro non è ancora finito, c’è un’altra cosa importante di cui lasciar traccia sul registro. Lo spazio per le annotazioni sul registro del 10 aprile è saturo, ma quello riservato alle segnalazioni dei navigli militari è vuoto e allora decide di utilizzarlo scrivendo due righe: “Condizioni meteo alle 22.27: Cielo sereno, mare calmo, vento da sud (160°) 2/3 nodi, visibilità 5/6 miglia”, ovvero circa 10 chilometri.
I processi e le indagini si concluderanno con nulla di fatto: tutta colpa della nebbia, di un equipaggio distratto dalla partita. Una tragica fatalità. Tutto più semplice, più comodo.
Fino a quando?
(Enrico Fedrighini: Moby Prince: un caso ancora aperto. Paoline Editoriale Libri, 2005, 368 p)