Dicono che ieri, nell’aula della commissione Trasporti della Camera, al quinto piano del palazzone di Montecitorio, tra Berlusconi e Bersani non siano volati nomi su cui costruire un’intesa per mandare al Quirinale una personalità se non proprio condivisa, almeno “non ostile al centro destra”. Si parla fortemente di una donna, ma ancora una volta i candidati che circolano servono per lo più a “coprire” quelli veri su cui si tratta per non bruciarli. E così si sono buttati in pasto ai retroscena Emma Bonino, Anna Finocchiaro, Fernanda Contri e Anna Maria Cancellieri, ben sapendo che ciascuna di esse, per un motivo o per un altro, ha qualcosa che inficia l’ascesa al Colle.
Emma Bonino non piace ad una fetta del Pdl (ala cattolica) e alla corrispondente del Pd (è invisa a Fioroni e popolari vari). Anna Finocchiaro rappresenta la vecchia nomenclatura Pd e non un grillino (ma neppure i montiani) voterebbero per lei, nonostante numeri e curriculum di tutto rispetto. Anna Maria Cancellieri è poi senz’altro stata un ottimo ministro e un ottimo prefetto, ma sulla spendibilità del nome ci si ferma ai confini nazionali. All’estero, la faccia bonaria dell’inquilina del Viminale è praticamente sconosciuta. Solo una di queste signore, poi, non è sgradita a Berlusconi, cioè la Bonino, notoriamente garantista e con in canna un colpo che il Cavaliere vorrebbe davvero che venisse sparato dal Quirinale subito dopo la nuova nomina: una richiesta alle Camere di un’amnistia accompagnata dall’indulto per svuotare le carceri. Berlusconi, ovviamente punterebbe a rientrarci anche lui, ma sarebbe la peggiore delle leggi ad personam possibile. E pure di difficile scrittura. Dunque, anche lì, il Cavaliere non si sente davvero garantito.
E allora chi? Paola Severino. La ministra della Giustizia della legge anticorruzione a metà. Ma anche l’avvocato penalista che ancora oggi sta dove sta grazie alle suppliche di Alfano, all’epoca delegato del Cavaliere alle trattative per la formazione del governo Monti, che barattò ogni poltrona pur di conservare nella propria sfera d’influenza il ministero della Giustizia. Paola Severino, avvocato d’estrazione moderata, sembrava adatta alla causa, alla missione: rassicurò tutti, tanto che Alfano accettò di mollare il ministero degli Esteri a un pupillo finiano (il sempre sorridente Giulio Maria Terzi di Sant’Agata, che poi si è visto recentemente abbracciare la causa berlusconiana) pur di avere la Severino come Guardasigilli. E sempre in nome della Severino, si ricorderà, circolò per sostituire Angelino Alfano al momento dell’elezione a segretario Pdl, poi la poltrona finì a Nitto Palma.
La stima del Cavaliere per la Severino è dunque massima. A farla entrare nelle grazie dei piani alti del berlusconismo potrebbe essere stata anche l’amicizia con Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, ma soprattutto è stata negli ultimi anni la vera “testa pensante” del ministero di via Arenula. Magistrato fuori ruolo ed ex gip del tribunale di Roma, Iannini, come capo del dipartimento degli Affari legislativi del ministero della Giustizia, ha avuto parte attiva in tutte le proposte di legge volte a tutelare Silvio Berlusconi.
Paola Severino è, poi, uno dei più noti avvocati penalisti italiani. Ha lavorato con Giovanni Maria Flick, poi nominato ministro della Giustizia nel governo di Romano Prodi. Ha difeso lo stesso Prodi nel processo Cirio. Ma anche Giovanni Acampora, legale della Fininvest poi coinvolto nel processo Imi-Sir. Ha difeso Francesco Gaetano Caltagirone nell’inchiesta di Perugia su Enimont, Cesare Geronzi per il crac della Cirio, l’ex segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni nell’indagine sui fondi per la gestione della tenuta di Castelporziano. Una donna di peso. E di potere. Trasversale. Sempre declinato con una discrezione che le viene unanimemente riconosciuta e che è uno dei cardini della sua influenza nelle stanze del potere (quelle vere), che sicuramente faranno il tifo per lei. Anzi, fanno il tifo per lei. Non manca un placet, sul suo nome, degli alleati di sempre d’oltre Oceano: gli americani.
La discrezione, dunque, che fa della Severino la donna giusta. Bisogna andare indietro fino a 2009 per ritrovare una sua dichiarazione contro le intercettazioni. A un convegno dell’Associazione nazionale magistrati dell’11 marzo di quell’anno sosteneva che “le intercettazioni si rivelano spesso inefficaci sul piano probatorio”. Nel 2002 ha sfiorato la nomina alla vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura, candidata dall’Udc. Dal 30 luglio 1997 al 30 luglio 2001 ha rivestito la carica di vicepresidente del Consiglio della magistratura militare (fu la prima donna nella storia). Un incarico grazie al quale vinse la classifica dei manager pubblici più ricchi nel 2001: 3,3 miliardi di lire nel 1998. Niente male per l’epoca.
Ebbene, sul nome della Severino, la quadra potrebbe essere trovata rapidamente. Per qualcuno davvero “alla prima votazione”. La voterebbero tutti, tranne – forse – i grillini. Sembra questa, dunque, la carta su cui – nei prossimi giorni – passeranno gli altri giochi ad incastro per arrivare al secondo step di questa difficile partita istituzionale: la formazione di un governo. Se ci sarà accordo sul nome della Severino, la strada di Bersani verso palazzo Chigi per formare un governo del nuovo presidente potrebbe rivelarsi meno ardita, anche se Berlusconi ieri ha velatamente insistito nel voler far parte direttamente del governo anziché sostenerlo, nell’eventualità, solo con un appoggio parlamentare.
Ma se l’ipotesi Severino, alla fine, dovesse naufragare, allora anche la formazione del governo tornerebbe in alto mare, con Bersani che si troverebbe davanti alla necessità di fare uno strappo e indurre alla nomina di un Capo di Stato di fatto di parte. A quel punto, però, Berlusconi sarebbe con le spalle al muro. Potrebbe certo urlare al “golpe” di una sinistra che si è presa tutte le più alte cariche istituzionali, ma poi rimarrebbe all’opposizione di un governo che, forse, potrebbe trovare anche l’appoggio dei grillini se emanazione di un Capo dello Stato dello spessore di un Zagrebelsky o Rodotà. E sarebbe per lui difficile poter chiamare le elezioni da una posizione di estrema debolezza e marginalità. Insomma, la partita del Quirinale si fa sempre più delicata e il nome della Severino sembra essere l’unico, al momento, capace di non complicarla ulteriormente.