Linee di Forza
di Paolo Bolognesi, Elena Invernizzi e Stefano Paolocci
L’anno precedente
«Questa è una pagina bianca. Una pagina che ancora deve essere scritta» esordì l’uomo canuto con un filo di voce. Un filo tagliente come la lama della spada di fiamma poggiata sul trono d’Oriente. Sotto la volta affrescata del palazzo della confraternita minore, il Senatore accolse il nuovo Maestro Venerabile con un largo sorriso e parole suadenti.
«I Maestri esistono nella mente come simboli» proseguì poi, sfiorando lo scranno e la statua di Athena, la dea della saggezza, e fissando lo sguardo sull’immagine delle tre fiamme del candelabro rituale attraverso i suoi spessi occhiali da miope.
La cerimonia di insediamento del nuovo Gran Maestro della loggia era avvenuta in modo rapido, ma solenne. Non c’era stato tempo né modo di sondare il terreno e selezionare con cura i possibili candidati da proporre in un consesso democratico. Il nome era venuto fuori così, dal nulla. Almeno a quanto ne sapeva la maggior parte degli adepti. Tuttavia, nessuno aveva levato un solo grido a contrastare l’elezione di quello che era stato chiaramente designato come l’unico pretendente al titolo, o, meglio, come il vero prescelto.
«Simboli, modelli, punti di riferimento. Siete come la mano capace d’indirizzare la penna sul foglio candido. Come il pastore che conduce il gregge lungo la retta via. Come il bastione che regge il castello» riprese il Senatore azzardando una serie di immagini allegoriche. Poi modulò la solennità del discorso alludendo al passato e al futuro di quello scranno: «Alle volte però questi baluardi si sfaldano e allora è necessario scovare una luce nell’oscurità, trovare una nuova guida: un uomo saggio e discreto, quale lei, Venerabile Gran Maestro, dimostrerà senza dubbio di essere.»
La spada fiammeggiante: il fuoco che distrugge l’uomo vecchio per dar vita all’uomo nuovo. O, se si vuole, la fiamma perenne che dà origine a tutto, la creazione, il Big Bang.
Il Gran Maestro si inchinò di fronte all’uomo che era stato il principale fautore della sua repentina ascesa al vertice della loggia. Una scintilla di consapevolezza gli attraversò l’iride. La fiamma dell’amore, la fiamma del potere. «Ora però è necessario pensare a ripulire la stalla» il Senatore fece segno all’altro di levarsi in piedi e di guardarlo negli occhi. «Ripulire la merda che ci circonda» furono queste le prime parole pronunciate dal Venerabile, una volta diventato tale. «Per poi cominciare a scrivere una nuova storia» gli occhi glauchi del Gran Maestro fissi sui fondi di bottiglia del Senatore.
Quando fu tutto finito, il fuoco smorzato e i simboli di nuovo velati, in un angolo di quella stessa sala una figura minuta sedette nell’ombra, quasi fosse attenta a non farsi notare. Tra le mani un libro rilegato in pelle. Un libro che parlava di silenzio e di potere. Nell’oscurità si intravedeva appena un ciuffo di capelli rossi come il becco della leggendaria Fenice.
Sabato 25 Maggio
«E’ arrivato il momento di ripulire il porcile» esordì l’uomo in tono neutro, quasi questo fosse davvero l’ordine impartito a un garzone non particolarmente solerte. Di fatto però Juri non aveva né l’aspetto, né tantomeno lo sguardo di uno stalliere sfaticato. Gli zigomi alti e le sopracciglia arcuate gli davano un’aria altera, mentre le labbra carnose e la piega della sua bocca stemperavano l’asprezza degli occhi, regalando al suo volto un guizzo di impertinenza. Quanto al “porcile”, non si poteva certo dire che non l’avesse mai frequentato nel corso di quei lunghi anni di “lavoro sporco”. Anzi, Juri lì era una vera e propria autorità: il capo verro assurto alfine al ruolo di macellaio.
E del boia in effetti aveva qualcosa, tanto nelle movenze solenni, quanto nel fisico solido ed energico. Non era alto, Juri, e neppure atletico, ma emanava potenza e determinazione da ogni muscolo: era proprio l’uomo giusto per quel tipo di lavoro.
Sabato 6 Giugno
Petrit Barci, in arte Pietro, era sbarcato con la Vlora a Bari nel millenovecentonovantuno. Assieme ad almeno ventimila conterranei, tutti salpati da Durazzo con la convinzione che quei duecento chilometri di Adriatico potessero davvero colmare la distanza fra il nulla a est e la fortuna a ovest.
Era rimasto accampato o, per meglio dire, pigiato come a un concerto dei Pearl Jam nel vecchio stadio della Vittoria assieme ai suoi compagni di viaggio fintantoché le autorità del Belpaese non avevano deciso di non decidere affatto. E allora, dopo quasi una settimana di calca insopportabile, il buon Petrit aveva scelto per sé. Raccattati i suoi stracci, era riuscito a prendere il treno per realizzare finalmente il suo sogno, lui che proveniva dalle montagne intorno a Scutari, la “Firenze dei Balcani”: vedere coi suoi occhi l’originale.
Palazzo della Signoria, Ponte Vecchio, persino la galleria degli Uffizi: ci aveva fantasticato sin da bambino, quando gli avevano regalato la guida turistica illustrata della città che era stata la culla del Rinascimento. Più di tutto, in quel libro formato tascabile con le pagine plastificate, aveva ammirato la riproduzione della Primavera del Botticelli: nelle sue figure armoniose aveva imparato a riconoscere il proprio ideale di bellezza femminile. Da adolescente, in Albania, non faceva che comparare le fidanzatine ora a questa, ora a quella delle tre Grazie ritratte dal pittore fiorentino: Voluttà, Castità e Bellezza. Inutile dire che nessuna mai aveva retto il paragone. Nessuna, a parte Flora: ma la più bella del paese di certo non avrebbe mai scelto un povero pecoraio come compagno di vita.
Quando poi, sbarcato in Italia, era finalmente riuscito a raggranellare i soldi per un biglietto agli Uffizi e si era ritrovato nella sala di Botticelli, era stato preso da un’emozione mai provata prima: un’autentica esperienza mistica paragonabile all’estasi di Santa Teresa d’Avila. Estasi subito soppiantata dall’imbarazzo, allorché Pietro era stato costretto a frugare nelle proprie tasche logore alla ricerca del biglietto d’ingresso da un guardiano impertinente che non si capacitava di come un pezzente albanese fosse arrivato fin là.
Domenica 7 Giugno
«Eroi. Non c’è altro modo di descrivervi. Voi siete degli eroi!» Il cardinale Visdomini tuonò dall’altare maggiore della cattedrale di San Donato, lo sguardo protervo poggiato sulle bare avvolte nel tricolore.
La luce fresca di giugno penetrava dalle vetrate di Guillaume de Marcillat cesellando grottesche filigrane sulle pieghe dei drappi funebri. Il duomo era gremito come non mai. In prima fila i rappresentanti delle istituzioni, calati nel rituale cordoglio che il funerale di tre servi dello Stato morti nell’adempimento delle proprie funzioni richiedeva.
«Il dolore ci squassa tutti. Le famiglie, la comunità cittadina, lo Stato» proseguì il cardinale con voce imperiosa. «Tre giovani virgulti che hanno immolato la propria vita in nome della giustizia e della sicurezza di tutti i cittadini; tre rappresentanti delle forze dell’ordine caduti nel tentativo di sconfiggere la violenza cieca e spietata della criminalità organizzata; tre fulgidi esempi di grandezza morale e abnegazione. Celebriamo questa Messa di esequie con animo profondamente commosso per il loro nobile sacrificio.»
I visi esageratamente contriti di quanti si preparavano a dichiarare alle telecamere la propria partecipazione al dolore delle famiglie cozzava con l’autentico strazio dei parenti.
Bandiere a mezz’asta, serrande abbassate, vetrine listate a lutto: questo il panorama desolato della città quella mesta domenica di giugno.
Il silenzio suonato da un trombettiere della polizia di Stato a cancellare le note ancora vibranti dell’organo settecentesco. E poi la quiete, una parvenza appena, un tentativo maldestro di oblio della coscienza. Solo per un minuto, uno soltanto: l’interruzione telecomandata del flusso continuo del tempo.
E ancora, i titoli dei quotidiani strillati al vento, la retorica delle istituzioni, il cordoglio sincero e la fede incrollabile: la reazione di una società che, in gran parte, la morte non contempla affatto.
Un minuto di silenzio, un minuto di contrasti, di idee ed emozioni inconciliabili, opposte, in quella luminosa domenica di giugno, ad Arezzo.
“La domenica delle salme gli addetti alla nostalgia accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia. La domenica delle salme fu una domenica come tante. Il giorno dopo c’erano i segni di una pace terrificante, mentre il cuore d’Italia, da Palermo ad Aosta, si gonfiava in un coro di vibrante protesta” cantava De André.
Giovedì 4 Giugno
Il cassetto si aprì con la stessa riluttanza di un politico costretto suo malgrado alle dimissioni, per poi riversare immediatamente a terra tutto il suo contenuto. Che quella giornata sarebbe stata decisamente faticosa, Guenda l’aveva intuito già la sera prima quando, stravaccata sul divano e regina incontrastata del telecomando, si era vista spodestare dal suo trono domestico dal trillo che contraddistingueva le chiamate provenienti dalla questura:
«Bonelli, c’è qualche problema?»
L’agente Fabio Bonelli, suo fidato collaboratore, colto il tono allarmato con cui l’ispettore Bernini aveva risposto al telefono, l’aveva subito tranquillizzata: «No, dottoressa, è soltanto che sono arrivati i nuovi colleghi e avrei bisogno di lei per compilare alcuni documenti.»
Inutile dire che da allarmato, il tono della voce di Guendalina era mutato all’istante in scocciato: «Mi dica allora. Posso fare qualcosa per lei o no?»
“Per esempio avrebbe potuto darmi una giornata di licenza”, doveva essere stato il pensiero del buon Bonelli che malgrado l’ora tarda si trovava ancora in servizio, costretto a una tornata di straordinari per far da chioccia ai due nuovi agenti assegnati alla questura di Arezzo: un giovanotto slavato dall’aria un po’ assente e una ragazza che, a ben guardare, non sarebbe stata neanche poi male, se non fosse stato per quel suo fare spocchioso.
Quarta di copertina
L’ispettore Guendalina Bernini di Arezzo è alle prese con un nuovo caso in cui si intrecciano i destini di faccendieri e poliziotti corrotti, giudici, massoni, politici e killer di professione. Seguendo le tracce dell’unico superstite di un’audace operazione di polizia, la giovane donna, ispettore con la passione per il fumetto, arriverà a tracciare i contorni di una storia che tutte le parti in causa si affannano a celare agli sguardi della giustizia e dell’opinione pubblica. Prima testimone, poi indagato lui stesso, il poliziotto scampato alla morte cercherà la fuga tra le campagne e i borghi e dell’Italia centrale ricchi di storia e suggestioni. A dargli la caccia però, in un drammatico gioco delle parti, non sarà solo Guendalina, ma un nemico ben più pericoloso. Finché la scoperta di una centrale di ascolto clandestina e dell’uso fatto regolarmente delle informazioni lì raccolte porterà Guendalina a svelare inganni e connivenze e a indagare fino ai vertici delle istituzioni democratiche. Quella raccontata in Linee di forza è una storia in cui una certa stampa, manovrata dal potere politico ed economico, gioca un ruolo chiave nel depistare le indagini e per distorcere la realtà dei fatti.
Nota al testo:
“Linee di forza” è un giallo del tutto indipendente e autoconclusivo. Ma può essere letto anche come il terzo capitolo delle avventure dell’ispettore Guendalina Bernini, già protagonista di “Ordine dal caos” (Minerva, 2009) e “Passato Imperfetto” (finalista del “Premio Fedeli” per il miglior romanzo poliziesco italiano 2008) di cui gli autori hanno peraltro riacquisito i diritti editoriali.
Gli autori
Paolo Bolognesi è il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna del 2 agosto 1980. Ha scritto “Ordine dal caos” (Minerva, 2009) e “Passato Imperfetto” (finalista del “Premio Fedeli” per il miglior romanzo poliziesco italiano 2008) con gli altri due autori. Ha pubblicato, con Roberto Scardova, “Stragi e mandanti”, (Aliberti, 2012).
Elena Invernizzi vive tra Milano e il Lussemburgo. Nel 2012 ha pubblicato per Round Robin “La Variante Moro. Tra via Fani e il Plan Cóndor” e, con Stefano Paolocci, “Un orsacchiotto con le batterie. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio”. Ha pubblicato “Tantalia”, “Il labirinto di Mîr”, (2006) e, ancora con Stefano Paolocci, “Chi è muto non parla” (2007, Simone Ed.), “Prima la panna, poi il cioccolato” (Effequ, 2004). È autrice, sempre con Stefano Paolocci e Paolo Bolognesi, dei gialli “Passato Imperfetto” e “Ordine dal caos” (Minerva, 2009). Nel 2011 ha sceneggiato il cortometraggio “Propaganda Republic” di Marco Bolognesi.
Stefano Paolocci, vive a Vasanello (VT) con la sua famiglia. Oltre ai libri già citati scritti a quattro o a sei mani, ha pubblicato vari romanzi per ragazzi tra cui: “Sgorbiafaccia. La dittatura argentina e i desaparecidos raccontati ai ragazzi”(Hablò, 2006) e “La panchina” (Cicorivolta, 2007). Con lo pseudonimo di Aidan Sweets ha pubblicato il romanzo “Isola per due” (Arpanet, 2008).