La figuraccia delle Quirinarie è solo l’ultimo tassello che smonta l’utopia del guru Casaleggio e il suo progetto di “democrazia sul web”. Capiamoci subito: la mia non vuole essere una critica politica, ma squisitamente tecnica. Il fatto è che, mettendo in fila tutti i problemi che assillano un sistema come quello che stanno (o hanno cercato) di mettere in piedi Grillo e Casaleggio, diventa evidente come pensare di utilizzare in questo modo internet per fare politica sia come cercare di aprire una scatoletta di tonno usando uno scolapasta.
I primi problemi arrivano dal controllo dei votanti. Per il momento, al M5S hanno risolto utilizzando un sistema di registrazione che prevede l’invio di documenti d’identità digitalizzati e una sorta di “certificazione” del circolo di appartenenza. Un inizio, ma con 8 milioni di elettori sarà il caso di trovare qualcosa di più convincente, sempre che esista. Chi ha pensato di relegare la questione a un dettaglio, dovrebbe ricredersi. Anche nella situazione più simile, ovvero le primarie del Pd, ci sono differenze notevoli. Prima di tutto perché il voto alle primarie avviene di persona, consentendo di filtrare i votanti anche sulla base della conoscenza. Per intenderci, il consigliere comunale di estrema destra che si presenta al banchetto non ha molte speranze che gli permettano di votare. Ma il punto fondamentale è che qui non si tratta di partecipare a delle primarie di partito, in cui qualche infiltrato si può mettere in conto. Chi avrà diritto di voto via internet potrà letteralmente “telecomandare” l’attività parlamentare degli eletti nel M5S.
A questo, bisogna aggiungere l’aspetto della sicurezza. Come dimostrato dalle Quirinarie, si tratta di un problema tutt’altro che secondario. Prima di tutto perché la cosa potrebbe ripetersi in occasioni i cui non c’è il tempo materiale per ripetere le votazioni. In secondo luogo perché rimangono troppe ombre sui controlli. Per esempio: chi assicura che l’attacco ci sia stato davvero? O che ci sia stato ma sia orchestrato da qualcuno che non gradiva i risultati? Non si tratta di gettare la croce sul solito Casaleggio. Proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se alle primarie del Pd qualcuno avesse detto “compagni, tutto da rifare perché qualcuno ha manomesso le schede”. Sarebbe scoppiato un putiferio. Lo stesso putiferio che nel M5S si sarebbe scatenato se il tema della votazione fosse stato, per esempio, l’ipotesi di appoggiare il governo Bersani.
Il problema, poi, potrebbe porsi in altri termini. Non sappiamo quali siano state le azioni compiute dai misteriosi hacker e, se la CasaleggioAssociati dice che si possono ripetere le votazioni senza paura di problemi, si può pensare che i danni siano stati minimi. Ma se la prossima volta i pirati informatici riuscissero a mettere le mani sui dati degli aventi diritto al voto? Bisognerebbe, come minimo, rifare le registrazioni. Che si fa nel frattempo? Gli eletti dovrebbero astenersi dalle votazioni? I furti di dati sono all’ordine del giorno e l’idea di creare un sistema di protezione a prova di bomba è pura utopia. La cronaca è piena di esempi: furti di dati di carte di credito, account Twitter, Facebook e PayPal eseguiti violando direttamente i database centrali in cui erano conservati. E si parla di aziende che spendono una fortuna per proteggere i loro dati. Figuriamoci che livello di sicurezza può garantire il sistema informatico di un movimento semi-spontaneo basato sul volontariato degli attivisti.
Anche senza bisogno di un attacco hacker al sito, il rischio che i dati per votare vengano rubati si pone in maniera permanente. Inutile scomodare ricerche e studi di settore: la realtà incontrovertibile è che buona parte dei computer sul pianeta (e in Italia le statistiche sono ovviamente peggiori) è infettato da virus che drenano ogni giorno qualsiasi tipo di informazione abbia un potenziale valore economico. Sul mercato nero è possibile acquistare elenchi con i dati di accesso a milioni di caselle di posta, social network e servizi online di qualsiasi genere. Quanto ci vorrà perché vengano proposti anche pacchetti di voti? E come ci si regola per i controlli?
Rimanendo al semplice sabotaggio, qualsiasi avversario politico potrebbe bloccare una votazione organizzando un meno complicato attacco DDoS, come quello che il mese scorso ha creato problemi in mezza Europa. Certo, compiere un’azione del genere è da veri stronzi, ma nella politica italiana abbiamo visto di peggio. E non serve nemmeno foraggiare con capitali inauditi un faccendiere che confezioni un falso dossier. Il costo per assoldare un hacker in grado di abbattere un sito è di 50 euro al giorno. Per bloccare un attacco del genere, invece, è necessario rivolgersi a società specializzate che chiedono migliaia di euro. Sono pronti i responsabili del movimento a inserire nuove voci nei “costi della politica”?
Le vere domande, alla fine, sono altre. Siamo sicuri che accantonare la fantomatica web democracy toglierebbe qualcosa allo spirito “rivoluzionario” del movimento? Basterebbe adottare assemblee e votazioni tradizionali per trasformarlo in un partito come gli altri? O gli ideali del movimento potrebbero sopravvivere anche senza il tanto osannato web? Magari gli attivisti farebbero bene a farci un pensierino. E anche Grillo e Casaleggio. Prima che il giocattolo gli si rompa tra le mani per banali “problemi tecnici”.