Django in Cina non è “Unchained”, anzi. È incatenato più che mai. Il nuovo film di Quentin Tarantino è stato ritirato dalle sale la mattina stessa del suo rilascio. E questo nonostante fosse stato anticipato da una massiccia campagna pubblicitaria e da una “ripulitura” operata dallo stesso regista per ottenere il nulla osta dei vari uffici preposti alla pubblicazione del materiale audiovisivo in Cina, ovvero l’Amministrazione statale per radio, cinema e televisione (SARFT) e l’Amministrazione generale per la stampa, l’editoria, la radio il cinema e la televisione (GAPPRFT).
Fa sorridere, perché le versioni pirata del film in questione girano per le strade delle metropoli cinesi da oltre un mese a un prezzo poco superiore all’euro. E per chi monitora settimanalmente le uscite al mercato nero dei dvd era facile prevedere che sarebbe stato un successo anche al botteghino. In un’intervista al Southern Metropolis Daily lo stesso Zhang Miao, presidente della filiale cinese di Sony Pictures aveva annunciato trionfante che si trattava solo di un lieve rimaneggiamento – ad esempio il ritocco del colore del sangue in un tono leggermente più scuro – che non avrebbe influito sulla qualità fondamentale dell’opera. “Quentin sa bene come fare gli aggiustamenti ed è necessario che sia lui l’unico a farlo. Puoi dargli suggerimenti, ma a farlo deve essere lui”. Evidentemente il “rimaneggiamento d’autore” non ha però incontrato il consenso dei censori locali.
“Problemi tecnici”, recitano laconicamente in coro gli esercenti dell’ex Impero di mezzo. L’ordine di interrompere le proiezioni sarebbe arrivato alle 10 di mattina. Sul banco degli accusati non ci sarebbero le scene eccessivamente splatter, ma un nudo integrale. “Le proiezioni di Django sono state posposte e non possiamo garantire che verranno riprese” è quello che avrebbe detto la commessa di uno dei multisala di Pechino. Su Weibo, il twitter cinese, gira la voce che le proiezioni sarebbero state interrotte dopo appena un minuto. “Avevo visto appena un minuto e il film si è interrotto” – si sfoga in tempo reale un utente sul popolare microblog – “Sono venute le maschere e ci hanno detto che li avevano chiamati per intimargli di posporre la proiezione. Qualcuno mi dica cosa sta succedendo!”.
Online infuria la polemica e addirittura Hu Xijin, il caporedattore del Global Times, lo spin off in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, commenta negativamente l’accaduto. “Il danno causato alla politica nazionale da questa scelta sarà molto più grande di quanto avrebbero potuto provocare alcune ‘scene pericolose’”, scrive dal suo account Weibo. E addirittura aggiunge che alcune autorità compiono spesso scelte discutibili, di cui farà le spese la credibilità del governo.
Django Unchained è il primo film di Tarantino a poter essere proiettato nelle sale cinesi e, nonostante l’intervento dello stesso regista per edulcorare la propria opera, sarebbe dovuto durare per l’intera sua lunghezza di 165 minuti. Sarebbe stato già un traguardo, se si pensa che Skyfall – l’ultimo episodio della saga di James Bond – nelle sale della Repubblica popolare aveva perso un’intera scena, quella girata a Shanghai. E Cloud Atlas, altro successo al botteghino della scorsa stagione, ha perso quasi 40 minuti di girato. È il prezzo che il cinema occidentale paga per entrare nel mercato cinese. Perché – come ci spiega bene un altro commento apparso sui microblog e citato da France Press “i censori mani di forbice sono più feroci del proprietario di schiavi che vuole fare di Django un eunuco”. Evidentemente il film, lui l’aveva già visto.
di Cecialia Attanasio Ghezzi