Per i 26 indagati del caso Black Monkey, dove venivano truccate le slot machine, il Riesame di Bologna ha ridotto il reato ad associazione a delinquere semplice. Il boss Femia in una telefonata intercettata dalla Finanza parlando del cronista antimafia disse: "o la smette o gli sparo in bocca"
Il tribunale del Riesame di Bologna ha rigettato la richiesta da parte della Procura distrettuale antimafia di Bologna di riconoscere l’associazione a delinquere di stampo mafioso per diversi indagati dell’operazione Black monkey, la stessa che portò all’arresto a gennaio scorso del boss Rocco Femia. L’uomo, insieme ai suoi due figli e ad altri 26 indagati, era stato arrestato perché ritenuto, secondo l’accusa, a capo di una organizzazione che gestiva e manometteva slot machine e videogame online in tutta Italia per giri d’affari da decine di milioni di euro. È durante questa inchiesta che Femia e Guido Torello parlarono in una intercettazione della Guardia di Finanza di Bologna, di Giovanni Tizian, il giornalista di Modena: ”…’sto giornalista – disse Torello – se ci arriviamo o la smette o gli sparo in bocca e finita lì”. Il cronista si era occupato proprio degli affari di Femia.
Dunque per tutti l’accusa rimane quella di associazione a delinquere semplice. Una decisione, quella del tribunale, che sul piano concreto delle misure cautelari pesa tantissimo. Per le 11 persone attualmente agli arresti domiciliari infatti il riconoscimento che l’associazione a delinquere era di stampo mafioso avrebbe potuto tradursi nella immediata carcerazione. Mentre per le 17 persone già dietro le sbarre il riconoscimento avrebbe significato un inasprimento delle condizioni carcerarie. Lo scorso il giudice per le indagini preliminari Bruno Perla con le sue 29 ordinanze di custodia cautelare aveva smantellato l’organizzazione, al vertice, secondo i pm Marco Mescolini e Francesco Caleca, c’era Femia, residente da anni in provincia di Ravenna.
Il Riesame però in altre sedute, come già aveva fatto il Gip, ha tuttavia riconosciuto per alcuni reati commessi dagli arrestati, l’aggravante del metodo mafioso, anche vista la vicinanza di Femìa e di altre persone indagate a un contesto malavitoso di questo tipo. Tuttavia secondo i giudici, il fatto di utilizzare un metodo mafioso non significa avere messo in piedi per questo affare una associazione mafiosa ad hoc da parte di Femia e dei suoi complici. Ora i magistrati dell’accusa potrebbero tentare un ulteriore ricorso sul punto: ”Dopo una attenta lettura delle motivazioni – ha detto il procuratore aggiunto Valter Giovannini, delegato ai rapporti con la stampa – valuteremo se ricorrere in Cassazione”.
Esultano invece le difese. ”L’intervenuta decisione è di fondamentale importanza per il prosieguo del procedimento, perché determina un inevitabile ridimensionamento dell’intera vicenda, che, a questo punto, attende esclusivamente di essere vagliata nel contraddittorio processuale con l’esame dei rispettivi consulenti, periti e testimoni al fine di valutare la regolarità dell’attività di gioco on line e le intestazioni, per lo più a familiari, delle società create per lo svolgimento di tali attività sottoposte al controllo dei Monopoli di Stato”, spiega l’avvocato Matteo Murgo che difende i figli del capo dell’organizzazione, Nicola Rocco Femia e Guendalina Femia (rispettivamente ora in carcere e ai domiciliari).
I numerosi indagati in questa inchiesta partita nel 2010 dalla denuncia (l’unica) di un cittadino extracomunitario, devono rispondere di molti reati oltre all’associazione a delinquere semplice: l’estorsione e il sequestro a scopo di estorsione (in molti casi, come detto aggravati dal metodo mafioso, visto che gli aggressori intimidivano le vittime reputandosi vicini alla ‘ndrangheta), la corruzione (nel caso un poliziotto in servizio in Calabria e un finanziere in servizio in Romagna). L’inchiesta (150 indagati in tutto) aveva scoperto che persino una impiegata della corte di Cassazione passava informazioni alla banda di Femia.