In Italia un collega psicoterapeuta è stato denunciato dai familiari di un suo paziente che si è suicidato. I parenti non contestano la cura che risulta a tutti gli effetti corretta ma, mossi dalla rabbia e dalla ricerca di un indennizzo, ritengono che avrebbe dovuto essere ricoverato contro la sua volontà con un trattamento sanitario obbligatorio.
Recentemente a un collega giovane che supervisiono è capitato il seguente episodio: gli telefona una signora per chiedere un appuntamento. Si accordano in base ai rispettivi impegni lavorativi per la settimana successiva. La mattina dell’appuntamento gli telefona un familiare per dirgli che la signora non verrà perché proprio quella notte si è impiccata. Purtroppo, lui mi confessa e un poco se ne vergogna, ha provato un sentimento di sollievo misto a tristezza.
Tristezza perché ritiene in cuor suo di aver aiutato altre persone a trovare una nuova spinta vitale ed è convinto che avrebbe potuto dare una mano a questa persona. Sollievo perché, stante l’imprevedibilità del sistema giudiziario italiano, se per caso avesse visitato la signora il giorno prima dell’evento tragico si sarebbe trovato nei guai.
Certo avrebbe potuto ricoverare quella persona ed evitare momentaneamente il gesto suicida, ma l’esperienza clinica dimostra che il ricovero solo in casi eccezionali è possibile e utile. Addirittura, in molte situazioni, diventa un elemento ulteriore di stigmatizzazione familiare e sociale oltre che di mortificazione personale. Il paziente pensa: “Sono così incapace che, oltre alle mie difficoltà personali, lavorative o sociali devo anche andare ricoverato in una clinica psichiatrica. Chissà ora cosa penseranno gli altri di me sapendo che sono stato ricoverato fra i matti. Sono proprio un incapace, la mia vita non vale nulla”. Per aiutare il paziente a superare una fase depressiva oltre ai farmaci, al coinvolgimento dei familiari o amici è necessario agire sulla sua autostima mettendo in evidenza che lui ha dentro di sé delle risorse emotive e pratiche per risolvere quel momento.
Nella mia esperienza clinica ho visto tante persone che mi hanno riferito, a posteriori, quando ormai stavano bene, di aver pensato in cuor loro al suicidio. Alcune mi hanno raccontato di averlo predisposto. Una ragazza, che ora svolge l’attività di infermiera e ha due figli, mi raccontò che quando aveva ventun anni e viveva sola aveva aperto il tubo del gas e si era messa a letto aspettando di morire. Mentre era sdraiata in silenzio sentì un bambino in lontananza che piangeva. Pensò: “Se la casa scoppia potrebbe essere coinvolto anche quel bambino” e si alzò per chiudere il gas. In quel periodo era in cura presso di me che ero un giovane medico. Parlammo a lungo nei mesi successivi di quel pianto e di quel bambino interiore che era in lei.
Credo che il suicidio debba rimanere una possibilità inalienabile di ogni essere umano. Una società che con strani futuribili macchinari potesse impedire il suicidio sarebbe una società senza libertà. Avrei però difficoltà ad aiutare un paziente a compiere il proprio suicidio o a certificare che legalmente lo può attuare se vivessi in Svizzera. Ho frequentato una clinica a Ginevra ed ho ancora alcuni amici che vi lavorano. Parlando con loro emerge una analoga difficoltà.
Credo che le ragioni della legge debbano essere distinte dall’attività medica e che chi si occupa dell’una non possa anche dedicarsi adeguatamente all’altra. Chi svolge l’attività di medico deve coltivare dentro di sé la speranza e la volontà di trovare una soluzione ad ogni matassa, anche la più intricata. Chi invece si occupa di attività medico legali si deve attenere a protocolli a norme e muoversi all’interno dei codici.
Ho buttato giù queste righe che forse, rileggendole, non hanno un senso completo. Non propongono una tesi. Volutamente non esprimo una mia idea su questo argomento, la libertà di vivere o di morire, che sento sovrastarmi, ma chiedo ai lettori una riflessione.