Rispettare l’esito referendario del giugno 2011 e ripubblicizzare l’acqua anche a Roma. Si può e conviene. Ne è convinto il Crap, Comitato romano acqua pubblica. E per dimostrare che il “modello Napoli”, cioè il passaggio da spa a un’azienda speciale di diritto pubblico, è applicabile anche nella Capitale, ha perfino commissionato uno studio di fattibilità economica dell’operazione. Un po’ di numeri che dimostrano come “sia possibile percorrere questa strada”.
Per analizzare l’azienda che gestisce il servizio idrico di Roma e provincia, cioè Acea Ato2, occorrono innanzitutto alcune informazioni sulla società madre, la capogruppo: Acea. La municipalizzata dei servizi di energia diviene una spa nel ’98, per essere quotata in Borsa l’anno successivo. E sul mercato viene collocata una quota pari al 49 per cento del capitale sociale. “Al 31 dicembre del 1999 – si legge nello studio del Crap – il debito era pari a 666,88 milioni di euro”. Ma anziché migliorare i conti, l’ingresso dei privati (tra i quali i francesi di Gdf Suez e il costruttore ed editore de Il Messaggero, Caltagirone) li peggiora soltanto: ad oggi il debito ammonta a 2,57 miliardi di euro. E negli ultimi dieci anni il titolo azionario ha avuto un vero e proprio tracollo, “perdendo oltre il 70 per cento del suo valore”.
Tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003 viene costituita Acea Ato2, attraverso la quale il gruppo Acea acquisisce il servizio idrico dei comuni del Lazio centrale (77 su 112 comuni). “Dopo dieci anni di gestione da parte di Acea Ato2, in molti comuni i cittadini non possono avere un’utenza idrica per mancanza di depuratori o perché questi sono stati posti sotto sequestro in quanto non conformi”. In alcuni casi infatti gli investimenti necessari alle reti idriche non sono stati realizzati, peggiorando di conseguenza la qualità del servizio. Mancanza di risorse economiche? Non proprio, visto che Acea Ato2 produce utili per circa 50 milioni di euro all’anno (derivanti dalle tariffe pagate dai cittadini).
Le entrate però vengono interamente prelevate dalla società madre, che detiene il 96,46 per cento delle quote. E il settore idrico per la holding Acea rappresenta circa il 60 per cento degli utili complessivi (nel 2012 77,4 milioni), che vengono poi in parte distribuiti agli azionisti. I cosiddetti dividendi. Nel momento in cui Acea Ato2 ha bisogno di risorse, necessarie ad esempio per gli investimenti, Acea concede i prestiti tramite una linea di credito intercompany, ma a tassi di mercato, comportandosi insomma come una banca. “Un meccanismo legale, utilizzato da molte società – spiega Simona Savini, attivista del Crap – anche se di dubbia legittimità”. Acea Ato2 continua quindi a pagare gli interessi (l’ultimo bilancio evidenzia una spesa di 17 milioni di euro per oneri finanziari) senza però riuscire a colmare il suo debito, che continua a salire.
Attualmente il credito vantato da Acea nei confronti di Acea Ato2 è pari a 480 milioni di euro. E, secondo le stime dei consulenti economici del Crap, nel 2020 potrebbe sfiorare i 3 miliardi, che vorrebbe dire fallimento. “Nel quale – sottolinea Savini – finirebbe per essere trascinata anche Acea”. Ma una soluzione, per evitare il baratro, c’è: “Scorporare prima di tutto Acea Ato2 da Acea e creare un’azienda speciale”, propone il Crap. E questo potrebbe avvenire con una delibera del Comune di Roma – che oltre a essere azionista di maggioranza di Acea, detiene il 3,5 per cento delle quote di Acea Ato2 – e degli altri comuni dell’Ato2. E successivamente, con un prestito di 275 milioni di euro della Cassa depositi e prestiti da restituire con una rata da 30 milioni per 13 anni, “riacquistare le quote private di Acea Ato2”. In modo da “ripianare il debito con Acea, con un altro prestito di durata venticinquennale”. L’acqua tornerebbe così totalmente pubblica e senza debiti. La parola spetta adesso al nuovo sindaco della Capitale.