“Romperò i garretti ai due cavalli di razza”. È il 20 dicembre 1971 quando Ugo La Malfa tuona nei corridoi di Montecitorio, pronto a tutto pur di impallinare i candidati forti della Democrazia cristiana: Amintore Fanfani e Aldo Moro. Con l’aiuto degli altri partiti laici, nonché dei soliti cecchini scudocrociati, ce la farà. Perché quello del 1971 è un Natale presidenziale ancor più tormentato di sette anni prima: stessi balletti, stesse divisioni nella Dc, stessi candidati in lizza: Fanfani, Leone, Saragat. Con l’aggiunta di Moro.
Dopo il laico Saragat, il partito cattolico rivendica il Quirinale per sé. Ma, come al solito, si frantuma in mille pezzi. Da una parte l’ala moderata doroteo-andreottiana, al centro i fanfaniani, a sinistra i filocomunisti Moro con la sua “strategia dell’attenzione” e De Mita col suo “arco costituzionale”. Arnaldo Forlani, il segretario del partito, uomo di Fanfani, non sa che pesci pigliare, ma fa onore al nomignolo che gli appiopperà Giampaolo Pansa: “Coniglio Mannaro”. Mandare sul Colle un rappresentante della sinistra, tipo Moro, significherebbe regalare un’altra vagonata di voti al Msi, trionfatore delle recenti elezioni amministrative (più 7%) a spese della Dc (meno 7%). E mandarci un uomo di destra sortirebbe un’analoga emorragia verso il Pci.
Fallito ogni tentativo di trovare un candidato comune con i partiti alleati, la Dc – in una burrascosa riunione dei gruppi parlamentari – opta per il solito Fanfani. “Il Rieccolo”, come lo chiama Indro Montanelli, passa ancora per un “progressista”, anche se ha appena condotto (e rovinosamente perduto) la battaglia contro il divorzio a braccetto col Vaticano e col leader missino Giorgio Almirante. Per quanti voti l’Amintore prevalga su Moro in quella notte dei lunghi coltelli, non si saprà mai: la votazione avviene a scrutinio segreto. Pochi, comunque: alla fine infatti le schede vengono bruciate, come nei conclavi, per distruggere le prove dell’ennesima spaccatura. Il 9 dicembre il Parlamento in seduta comune comincia a votare. Ed emerge subito chiarissimo che Fanfani non ha dietro di sé tutto il partito: prende appena 388 voti, contro i 397 del socialista Francesco De Martino, votato compattamente dai socialcomunisti. E negli scrutini successivi il divario, anziché ridursi, aumenta. I socialisti, col segretario Giacomo Mancini, non mollano su De Martino, anche se Bettino Craxi – lo scalpitante pupillo di Nenni – lavora sottobanco per Moro. Ma di Moro non vuol sentire parlare La Malfa, che chiede espressamente un laico, o al massimo un cattolico “poco colorito”. Il Pli è fermo sul suo segretario, Giovanni Malagodi, e così il Psdi, tetragono sulla rielezione di Saragat, che ci tiene tanto e ne sta facendo una malattia. I comunisti continuano a votare De Martino, pronti però a intese segrete con la Dc, nella convinzione che stavolta Piazza del Gesù non ricorrerà al soccorso nero (cioè ai voti missini). E qui si sbagliano di grosso.
Le 11 fumate nere di Fanfani
La confusione regna sovrana. In odio a Fanfani, i deputati del manifesto depositano nell’insalatiera schede con la scritta “Fanfascista” o con la rima baciata: “Maledetto nanetto, non verrai mai eletto”. All’undicesima fumata nera, Fanfani capisce l’antifona e si ritira. Per l’ennesima volta lo Scudocrociato è costretto a cambiare cavallo a metà della corsa. E, in attesa di trovare un nuovo candidato, si astiene. Lo stesso fanno, tra le proteste delle sinistre, i missini, i monarchici, i repubblicani, i socialdemocratici e i repubblicani: una vasta area di parcheggio – tutta di centrodestra – che rappresenta la maggioranza dell’aula e sembra aspettare soltanto un uomo di vasto consenso. Ma le sinistre non lo capiscono e chiedono ingenuamente alla Dc i voti per Nenni, disposte al massimo ad appoggiare Moro. Proprio quel che non vogliono il Pri e il Psdi, che propongono in alternativa Leone, Rumor o Paolo Emilio Taviani. Il secondo e il terzo declinano subito. Resta Leone.
Nato a Napoli nel 1908, figlio di uno dei fondatori del Partito popolare, insigne docente di procedura penale e principe del foro, di orientamento monarchico, iscritto in gioventù al Partito fascista e poi alla Dc fin dal 1944, deputato fin dalla Costituente (fu relatore alla commissione dei Settantacinque per il titolo “Magistratura”), vicepresidente eppoi presidente della Camera, due volte presidente del Consiglio nonché senatore a vita, Leone è un notabile che non s’è mai impegolato nelle beghe di corrente. Passa per un uomo super partes e la sua fama di conservatore basta e avanza a mettere la sordina ai dissensi, dovuti essenzialmente alla sua ostentata, quasi sfacciata napoletanità: scongiuri e “corna” ad ogni pie’ sospinto, sfrenate tarantelle e cantate di O’ Sole mio anche in cerimonie ufficiali, intemperanze non proprio protocollari allo stadio San Paolo quando gioca il Napoli, e un’inflessione dialettale quasi molesta. Ma il suo rigore di giurista sembra fatto apposta per un partito che, nel caos dell’Italia dei primi anni 70, vuole ridarsi un’immagine di law and order. E recuperare i voti regalati alla destra.
L’interessato viene informato a cose fatte: mentre gli “amici” lo designano per il Quirinale, Leone è chiuso in casa con la bronchite. È qui che Forlani, i capigruppo Giulio Andreotti e Giovanni Spagnolli e il presidente del partito Benigno Zaccagnini gli portano la notizia. Lui prende tempo: memore del “supplizio cinese” di sette anni prima, quando alla fine la spuntò Saragat, vuole prima sentire gli alleati laici. A La Malfa il suo nome va bene, al Psdi pure e anche i liberali ci stanno. I socialisti tuonano contro “l’ennesima candidatura di centrodestra”, i comunisti si accodano. Ragion per cui anche il Msi si associa a Leone. Il quale accetta e l’indomani, 23 dicembre, manca il quorum per un solo voto: 503 voti contro gli almeno 504 necessari. Ma lo ottiene alla vigilia di Natale, con appena 13 voti di scarto (518 su 996). Una maggioranza risicatissima (51.4%) e ultramoderata, la sua: Dc, laici, Msi. Lui, a 63 anni, è il più giovane presidente della Repubblica: quello eletto dopo il maggior numero di scrutini: ben ventitré. L’epilogo della votazione decisiva l’ha seguito dal suo ufficio in Senato, alla tv. Tentennerà un po’ prima di accettare. L’ora è grave e gliene dà la prova un’allusiva lettera che gli viene recapitata un minuto prima del voto. “Nella mia qualità di segretario organizzativo di una potente Istituzione riservata, mi pregio informarla che abbiamo deliberato di far convergere sul suo nome i voti di tutti i nostri Grandi Elettori”. Firmato: Licio Gelli. La potente Istituzione riservata è la loggia Propaganda 2 del Grande Oriente d’Italia, detta P2. E Gelli ne è il Maestro Venerabile.
L’elezione di Leone scatena il pandemonio a sinistra. Il manifesto lo definisce “il Segni napoletano”, per via del determinante appoggio missino. E quando si presenta alle Camere per l’insediamento, i comunisti l’accolgono con lanci di monetine. Pajetta scaraventa un sacchetto pieno di 10 lire addosso a Ugo La Malfa, antifascista ma sponsor di un presidente eletto coi voti decisivi dei fascisti. Poco importa se il primo discorso del presidente Leone, nonostante il linguaggio ottocentesco, è un capolavoro di equilibrio giuridico e di osservanza costituzionale: “Non spetta a me formulare programmi o indicare soluzioni. Solo vigilare sul rispetto della Costituzione”. Purtroppo alle parole non sempre seguiranno i fatti. Leone darà spesso l’impressione di accodarsi agli ordini del suo partito, soprattutto dell’uomo forte Giulio Andreotti. Con l’elezione di Leone, il centrosinistra è in frantumi. La Dc spinge per le elezioni anticipate e Leone si adegua, senza scaldarsi troppo per salvare la legislatura. Prima di sciogliere le Camere (è la prima volta, nella storia repubblicana), incarica il divo Giulio per un bicolore di minoranza Dc-Pli, destinato a sicura bocciatura, ma che consente allo Scudocrociato di gestire le elezioni con un governo tutto suo.
Gli anni che seguono sono tra i più burrascosi della storia della Repubblica. L’Italia fuori dal serpente monetario europeo (1973), il ritorno di Fanfani alla segreteria Dc e l’ultimo rantolo del centrosinistra (governo Rumor), il referendum sul divorzio e le stragi di Brescia e dell’Italicus (1974), il crollo del governo Moro-La Malfa (1975). Il Presidente scioglie di nuovo le Camere per espresso desiderio della Dc, che gestisce le elezioni con un altro monocolore di minoranza. Poi l’inizio della lunga stagione del compromesso storico, mentre l’Italia affonda nel fango degli scandali e nel sangue del terrorismo. Nel caso Lockheed viene coinvolto pure l’uomo del Colle, tirato per i capelli come il possibile regista (“Antelope Cobbler”) dell’operazione tangentizia italo-americana. E poco importa se, anni dopo, ne verrà totalmente scagionato. La campagna scandalistica bipartisan, delle sinistre (soprattutto l’Espresso e la giornalista Camilla Cederna) e dell’agenzia OP di Mino Pecorelli, prende di mira il Quirinale per la vita disinvolta della famiglia Leone: voci di assegni a donna Vittoria (la bella e ingombrante first lady) e insinuazioni sulla di lei vita privata (tratte da un vecchio dossier del generale De Lorenzo); pettegolezzi sull’allegra figliolanza (i “tre monelli” Mauro, Roberto e Paolo); accuse di nepotismi di corte; chiacchierate amicizie con i fratelli Lefebvre d’Ovidio (protagonisti dell’affaire Lockheed), il finanziere Rovelli, financo con lo Scià di Persia. Il resto lo fa “don” Giovanni, con le sue continue esibizioni di corna: davanti agli studenti che lo contestano all’Università di Pisa e davanti ai malati di colera negli ospedali di Napoli, sempre sotto i flash e le telecamere. Ad aggiungere discredito sulle istituzioni contribuiscono, nel 1978, il sequestro Moro e il referendum radicale contro il finanziamento pubblico dei partiti (che lo osteggiano in blocco, mentre il 43% degli italiani vota Sì).
Le accuse e l’isolamento
Ci vuole un capro espiatorio: e chi meglio di Leone? Nel 1975 il Presidente s’è inimicato definitivamente le sinistre, con un duro messaggio alle Camere in cui le invitava ad applicare la Costituzione regolamentando il diritto di sciopero. E ora è messo al tappeto dal feroce pamphlet della Cederna, Giovanni Leone – Carriera di un Presidente (in seguito denunciata dai figli di Leone e condannata a per diffamazione, anche se non tutte le sue accuse, soprattutto all’entourage leonino, erano campate per aria) e dalla martellante campagna dei radicali capitanati da Marco Pannella (che anni dopo, insieme a Emma Bonino, gli chiederà pubblicamente scusa). Lui vorrebbe querelare, ma il ministro della Giustizia del governo Andreotti, il democristiano Francesco Paolo Bonifacio, nega più volte l’autorizzazione a procedere per oltraggio. Il Pci di Enrico Berlinguer chiede le sue dimissioni. E lo stesso fa Ugo La Malfa, che pure aveva patrocinato la sua elezione. A quel punto la Dc, sempre più succube del Pci, non si accontenta di non difenderlo, e platealmente lo scarica. Andreotti e Zaccagnini vanno a trovarlo al Quirinale il 15 giugno per invitarlo dolcemente a sloggiare anzitempo. Leone vorrebbe ricordare ad Andreotti che fu proprio lui a convincerlo a non rispondere alle accuse, a non querelare i suoi diffamatori: lo stesso Andreotti che ora, in base a quelle accuse, gli dà il benservito. Ma non lo fa e se ne va, sei mesi e due settimane prima della scadenza naturale del mandato. Ha già pronto il discorso di commiato. E congeda sarcastico e frettoloso i due “amici”, ospiti più che mai sgraditi: “Grazie, guagliò, così ora potrò guardarmi i Mondiali di calcio in santa pace”.
da Il Fatto Quotidiano del 14 aprile 2013
Politica
Colle, gli 11 presidenti – Leone, il giurista incompreso che faceva le corna
Eletto da laici, Dc e Msi, finì nel mirino della sinistra (più Andreotti) e della stampa. La lettera di Licio Gelli: "Mi pregio informarla che abbiamo deliberato di far convergere sul suo nome i voti di tutti i nostri Grandi Elettori”
“Romperò i garretti ai due cavalli di razza”. È il 20 dicembre 1971 quando Ugo La Malfa tuona nei corridoi di Montecitorio, pronto a tutto pur di impallinare i candidati forti della Democrazia cristiana: Amintore Fanfani e Aldo Moro. Con l’aiuto degli altri partiti laici, nonché dei soliti cecchini scudocrociati, ce la farà. Perché quello del 1971 è un Natale presidenziale ancor più tormentato di sette anni prima: stessi balletti, stesse divisioni nella Dc, stessi candidati in lizza: Fanfani, Leone, Saragat. Con l’aggiunta di Moro.
Dopo il laico Saragat, il partito cattolico rivendica il Quirinale per sé. Ma, come al solito, si frantuma in mille pezzi. Da una parte l’ala moderata doroteo-andreottiana, al centro i fanfaniani, a sinistra i filocomunisti Moro con la sua “strategia dell’attenzione” e De Mita col suo “arco costituzionale”. Arnaldo Forlani, il segretario del partito, uomo di Fanfani, non sa che pesci pigliare, ma fa onore al nomignolo che gli appiopperà Giampaolo Pansa: “Coniglio Mannaro”. Mandare sul Colle un rappresentante della sinistra, tipo Moro, significherebbe regalare un’altra vagonata di voti al Msi, trionfatore delle recenti elezioni amministrative (più 7%) a spese della Dc (meno 7%). E mandarci un uomo di destra sortirebbe un’analoga emorragia verso il Pci.
Fallito ogni tentativo di trovare un candidato comune con i partiti alleati, la Dc – in una burrascosa riunione dei gruppi parlamentari – opta per il solito Fanfani. “Il Rieccolo”, come lo chiama Indro Montanelli, passa ancora per un “progressista”, anche se ha appena condotto (e rovinosamente perduto) la battaglia contro il divorzio a braccetto col Vaticano e col leader missino Giorgio Almirante. Per quanti voti l’Amintore prevalga su Moro in quella notte dei lunghi coltelli, non si saprà mai: la votazione avviene a scrutinio segreto. Pochi, comunque: alla fine infatti le schede vengono bruciate, come nei conclavi, per distruggere le prove dell’ennesima spaccatura. Il 9 dicembre il Parlamento in seduta comune comincia a votare. Ed emerge subito chiarissimo che Fanfani non ha dietro di sé tutto il partito: prende appena 388 voti, contro i 397 del socialista Francesco De Martino, votato compattamente dai socialcomunisti. E negli scrutini successivi il divario, anziché ridursi, aumenta. I socialisti, col segretario Giacomo Mancini, non mollano su De Martino, anche se Bettino Craxi – lo scalpitante pupillo di Nenni – lavora sottobanco per Moro. Ma di Moro non vuol sentire parlare La Malfa, che chiede espressamente un laico, o al massimo un cattolico “poco colorito”. Il Pli è fermo sul suo segretario, Giovanni Malagodi, e così il Psdi, tetragono sulla rielezione di Saragat, che ci tiene tanto e ne sta facendo una malattia. I comunisti continuano a votare De Martino, pronti però a intese segrete con la Dc, nella convinzione che stavolta Piazza del Gesù non ricorrerà al soccorso nero (cioè ai voti missini). E qui si sbagliano di grosso.
Le 11 fumate nere di Fanfani
La confusione regna sovrana. In odio a Fanfani, i deputati del manifesto depositano nell’insalatiera schede con la scritta “Fanfascista” o con la rima baciata: “Maledetto nanetto, non verrai mai eletto”. All’undicesima fumata nera, Fanfani capisce l’antifona e si ritira. Per l’ennesima volta lo Scudocrociato è costretto a cambiare cavallo a metà della corsa. E, in attesa di trovare un nuovo candidato, si astiene. Lo stesso fanno, tra le proteste delle sinistre, i missini, i monarchici, i repubblicani, i socialdemocratici e i repubblicani: una vasta area di parcheggio – tutta di centrodestra – che rappresenta la maggioranza dell’aula e sembra aspettare soltanto un uomo di vasto consenso. Ma le sinistre non lo capiscono e chiedono ingenuamente alla Dc i voti per Nenni, disposte al massimo ad appoggiare Moro. Proprio quel che non vogliono il Pri e il Psdi, che propongono in alternativa Leone, Rumor o Paolo Emilio Taviani. Il secondo e il terzo declinano subito. Resta Leone.
Nato a Napoli nel 1908, figlio di uno dei fondatori del Partito popolare, insigne docente di procedura penale e principe del foro, di orientamento monarchico, iscritto in gioventù al Partito fascista e poi alla Dc fin dal 1944, deputato fin dalla Costituente (fu relatore alla commissione dei Settantacinque per il titolo “Magistratura”), vicepresidente eppoi presidente della Camera, due volte presidente del Consiglio nonché senatore a vita, Leone è un notabile che non s’è mai impegolato nelle beghe di corrente. Passa per un uomo super partes e la sua fama di conservatore basta e avanza a mettere la sordina ai dissensi, dovuti essenzialmente alla sua ostentata, quasi sfacciata napoletanità: scongiuri e “corna” ad ogni pie’ sospinto, sfrenate tarantelle e cantate di O’ Sole mio anche in cerimonie ufficiali, intemperanze non proprio protocollari allo stadio San Paolo quando gioca il Napoli, e un’inflessione dialettale quasi molesta. Ma il suo rigore di giurista sembra fatto apposta per un partito che, nel caos dell’Italia dei primi anni 70, vuole ridarsi un’immagine di law and order. E recuperare i voti regalati alla destra.
L’interessato viene informato a cose fatte: mentre gli “amici” lo designano per il Quirinale, Leone è chiuso in casa con la bronchite. È qui che Forlani, i capigruppo Giulio Andreotti e Giovanni Spagnolli e il presidente del partito Benigno Zaccagnini gli portano la notizia. Lui prende tempo: memore del “supplizio cinese” di sette anni prima, quando alla fine la spuntò Saragat, vuole prima sentire gli alleati laici. A La Malfa il suo nome va bene, al Psdi pure e anche i liberali ci stanno. I socialisti tuonano contro “l’ennesima candidatura di centrodestra”, i comunisti si accodano. Ragion per cui anche il Msi si associa a Leone. Il quale accetta e l’indomani, 23 dicembre, manca il quorum per un solo voto: 503 voti contro gli almeno 504 necessari. Ma lo ottiene alla vigilia di Natale, con appena 13 voti di scarto (518 su 996). Una maggioranza risicatissima (51.4%) e ultramoderata, la sua: Dc, laici, Msi. Lui, a 63 anni, è il più giovane presidente della Repubblica: quello eletto dopo il maggior numero di scrutini: ben ventitré. L’epilogo della votazione decisiva l’ha seguito dal suo ufficio in Senato, alla tv. Tentennerà un po’ prima di accettare. L’ora è grave e gliene dà la prova un’allusiva lettera che gli viene recapitata un minuto prima del voto. “Nella mia qualità di segretario organizzativo di una potente Istituzione riservata, mi pregio informarla che abbiamo deliberato di far convergere sul suo nome i voti di tutti i nostri Grandi Elettori”. Firmato: Licio Gelli. La potente Istituzione riservata è la loggia Propaganda 2 del Grande Oriente d’Italia, detta P2. E Gelli ne è il Maestro Venerabile.
L’elezione di Leone scatena il pandemonio a sinistra. Il manifesto lo definisce “il Segni napoletano”, per via del determinante appoggio missino. E quando si presenta alle Camere per l’insediamento, i comunisti l’accolgono con lanci di monetine. Pajetta scaraventa un sacchetto pieno di 10 lire addosso a Ugo La Malfa, antifascista ma sponsor di un presidente eletto coi voti decisivi dei fascisti. Poco importa se il primo discorso del presidente Leone, nonostante il linguaggio ottocentesco, è un capolavoro di equilibrio giuridico e di osservanza costituzionale: “Non spetta a me formulare programmi o indicare soluzioni. Solo vigilare sul rispetto della Costituzione”. Purtroppo alle parole non sempre seguiranno i fatti. Leone darà spesso l’impressione di accodarsi agli ordini del suo partito, soprattutto dell’uomo forte Giulio Andreotti. Con l’elezione di Leone, il centrosinistra è in frantumi. La Dc spinge per le elezioni anticipate e Leone si adegua, senza scaldarsi troppo per salvare la legislatura. Prima di sciogliere le Camere (è la prima volta, nella storia repubblicana), incarica il divo Giulio per un bicolore di minoranza Dc-Pli, destinato a sicura bocciatura, ma che consente allo Scudocrociato di gestire le elezioni con un governo tutto suo.
Gli anni che seguono sono tra i più burrascosi della storia della Repubblica. L’Italia fuori dal serpente monetario europeo (1973), il ritorno di Fanfani alla segreteria Dc e l’ultimo rantolo del centrosinistra (governo Rumor), il referendum sul divorzio e le stragi di Brescia e dell’Italicus (1974), il crollo del governo Moro-La Malfa (1975). Il Presidente scioglie di nuovo le Camere per espresso desiderio della Dc, che gestisce le elezioni con un altro monocolore di minoranza. Poi l’inizio della lunga stagione del compromesso storico, mentre l’Italia affonda nel fango degli scandali e nel sangue del terrorismo. Nel caso Lockheed viene coinvolto pure l’uomo del Colle, tirato per i capelli come il possibile regista (“Antelope Cobbler”) dell’operazione tangentizia italo-americana. E poco importa se, anni dopo, ne verrà totalmente scagionato. La campagna scandalistica bipartisan, delle sinistre (soprattutto l’Espresso e la giornalista Camilla Cederna) e dell’agenzia OP di Mino Pecorelli, prende di mira il Quirinale per la vita disinvolta della famiglia Leone: voci di assegni a donna Vittoria (la bella e ingombrante first lady) e insinuazioni sulla di lei vita privata (tratte da un vecchio dossier del generale De Lorenzo); pettegolezzi sull’allegra figliolanza (i “tre monelli” Mauro, Roberto e Paolo); accuse di nepotismi di corte; chiacchierate amicizie con i fratelli Lefebvre d’Ovidio (protagonisti dell’affaire Lockheed), il finanziere Rovelli, financo con lo Scià di Persia. Il resto lo fa “don” Giovanni, con le sue continue esibizioni di corna: davanti agli studenti che lo contestano all’Università di Pisa e davanti ai malati di colera negli ospedali di Napoli, sempre sotto i flash e le telecamere. Ad aggiungere discredito sulle istituzioni contribuiscono, nel 1978, il sequestro Moro e il referendum radicale contro il finanziamento pubblico dei partiti (che lo osteggiano in blocco, mentre il 43% degli italiani vota Sì).
Le accuse e l’isolamento
Ci vuole un capro espiatorio: e chi meglio di Leone? Nel 1975 il Presidente s’è inimicato definitivamente le sinistre, con un duro messaggio alle Camere in cui le invitava ad applicare la Costituzione regolamentando il diritto di sciopero. E ora è messo al tappeto dal feroce pamphlet della Cederna, Giovanni Leone – Carriera di un Presidente (in seguito denunciata dai figli di Leone e condannata a per diffamazione, anche se non tutte le sue accuse, soprattutto all’entourage leonino, erano campate per aria) e dalla martellante campagna dei radicali capitanati da Marco Pannella (che anni dopo, insieme a Emma Bonino, gli chiederà pubblicamente scusa). Lui vorrebbe querelare, ma il ministro della Giustizia del governo Andreotti, il democristiano Francesco Paolo Bonifacio, nega più volte l’autorizzazione a procedere per oltraggio. Il Pci di Enrico Berlinguer chiede le sue dimissioni. E lo stesso fa Ugo La Malfa, che pure aveva patrocinato la sua elezione. A quel punto la Dc, sempre più succube del Pci, non si accontenta di non difenderlo, e platealmente lo scarica. Andreotti e Zaccagnini vanno a trovarlo al Quirinale il 15 giugno per invitarlo dolcemente a sloggiare anzitempo. Leone vorrebbe ricordare ad Andreotti che fu proprio lui a convincerlo a non rispondere alle accuse, a non querelare i suoi diffamatori: lo stesso Andreotti che ora, in base a quelle accuse, gli dà il benservito. Ma non lo fa e se ne va, sei mesi e due settimane prima della scadenza naturale del mandato. Ha già pronto il discorso di commiato. E congeda sarcastico e frettoloso i due “amici”, ospiti più che mai sgraditi: “Grazie, guagliò, così ora potrò guardarmi i Mondiali di calcio in santa pace”.
da Il Fatto Quotidiano del 14 aprile 2013
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La Camera respinge la sfiducia a Santanchè: “Sulle dimissioni rifletterò”. Conte: “Siete responsabili di un disastro morale”. Schlein: “Meloni ancora in fuga”
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Francesco, condizioni critiche ma stazionarie: “Nuova tac di controllo”. Ha visto il cardinale Parolin. Buenos Aires in ansia per il ‘suo’ Papa
Tel Aviv, 25 feb. (Adnkronos) - Ofri Bibas, sorella dell'ostaggio liberato Yarden Bibas, ha criticato duramente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nonché i notiziari, gli utenti dei social media e i diplomatici pubblici, per aver descritto in dettaglio, contro la volontà della famiglia, gli omicidi avvenuti durante la prigionia della moglie di Yarden, Shiri, e dei suoi figli piccoli Ariel e Kfir. Pubblicare tali informazioni nonostante le ripetute richieste della famiglia è stato "un abuso fine a se stesso nei confronti di una famiglia che ha attraversato 16 mesi di inferno e che deve ancora affrontare il peggio", ha sritto Ofri Bibas su Facebook.
Netanyahu ha descritto l'omicidio dei ragazzi in modo molto dettagliato in un discorso tenuto davanti all'America Israel Public Action Committee e, mentre teneva in mano una foto delle vittime, durante una cerimonia militare tenutasi ieri, in seguito alla quale, la famiglia Bibas ha inviato una lettera di diffida a Netanyahu e ad altri uffici governativi, chiedendo loro di smettere di pubblicare dettagli non approvati sugli omicidi, riporta il sito di notizie Ynet.
Washington, 25 feb. (Adnkronos) - "Questa decisione lacera l'indipendenza di una stampa libera negli Stati Uniti". Lo ha detto il presidente della White House Correspondents' Association Eugene Daniels, criticando l'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per aver affermato che d'ora in poi sarà lei stessa a decidere quali giornalisti potranno seguire gli eventi della Casa Bianca. "In un paese libero, i leader non devono scegliere le testate" da accreditare, ha aggiunto.
Washington, 25 feb. (Adnkronos) - La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha dichiarato durante il briefing di oggi che l'amministrazione determinerà quali organi di stampa faranno parte del pool stampa della Casa Bianca. Attualmente la White House Correspondents Association aiuta a coordinare la copertura del pool.
La Leavitt ha affermato che alle "testate tradizionali" sarà comunque consentito di unirsi al pool, ma ha osservato che l'amministrazione consentirà l'adesione anche ad altri siti. "Sono orgogliosa di annunciare che restituiremo il potere alle persone che leggono i vostri giornali, che guardano i vostri programmi televisivi e che ascoltano le vostre stazioni radio", ha aggiunto.
(Adnkronos) - L'indagine su Twitter International Uk vede due indagati - si tratta di due ex amministratori (un irlandese e un indiano) - che si sono succeduti negli ultimi anni alla guida del social poi rilevato da Elon Musk a fine 2022. L'indagine nasce da un controllo fiscale della Gdf, concluso ad aprile 2024, proprio sulla piattaforma americana, che oggi si chiama 'X', sulla scia delle stesse verifiche fatte su Meta. Il fascicolo è affidato dal pm Giovanni Polizzi, già protagonista di altre indagini sui colossi del web.
Il punto centrale del fascicolo affidato a Polizzi, lo stesso che si è occupato dell'inchiesta su Meta, è l'idea che debbano essere tassate come transazioni commerciali le iscrizioni gratuite alle piattaforme online in cambio della cessione dei propri dati personali, che hanno un valore economico, visto che consentono la profilazione degli utenti.
Solo lo scorso dicembre la procura di Milano ha notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti dei rappresentanti legali della società di diritto irlandese Meta, titolare dei social Facebook e Instagram. L'inchiesta - ancora aperta - ipotizza per il colosso l'omessa dichiarazione e mancato pagamento - tra il 2015 e il 2021 - dell'Iva per un totale di oltre 877 milioni di euro.
Washington, 25 feb. (Adnkronos) - La Casa Bianca attribuisce il grosso livido sulla mano destra di Donald Trump, che era visibile durante l'incontro di ieri con il presidente francese Emmanuel Macron, alle strette di mano del presidente americano.
"Il presidente Trump è un uomo del popolo", ha affermato la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt, aggiungendo: "Il suo impegno è incrollabile e lo dimostra ogni singolo giorno. Il presidente Trump ha lividi sulla mano perché lavora costantemente e stringe mani tutto il giorno, tutti i giorni".
Roma, 25 feb. (Adnkronos) - Sono due i momenti della replica di Daniela Santanchè sottolineati dalle opposizioni, che oggi hanno votato compatte la mozione di sfiducia alla ministra del Turismo. Il primo quello sull''intemerata' del tacco 12 e il glamour, della sinistra che odia la ricchezza. Un tentativo di 'buttarla in caciara' e uscire dal merito, grave, della vicenda, dicono le opposizioni. L'altro passaggio è meno di colore e più inquietante, sostengono, ed è quando la ministra ha detto che alla prossima udienza valuterà le dimissioni "ma lo farò da sola - ha scandito- con me stessa, senza nessuna costrizione e forzatura". Una sottolineatura che, secondo le opposizioni, è un chiaro messaggio a Giorgia Meloni. E fa crescere l'interrogativo: perché la premier Meloni si fa trattare in questo modo? E' la domanda dei parlamentari di minoranza in Transatlantico.
Giuseppe Conte intervenendo in aula nelle dichiarazioni di voto ha dato una sua versione: "Ci sono solo due plausibili spiegazioni. La prima è che lei, Santanchè, ricatta Meloni. Può darsi che all'opposizione abbiate condiviso segreti che oggi mettono in imbarazzo la presidente del Consiglio e allora comprenderemmo perché ogni giorno Meloni dice che non è ricattabile... La seconda è che Fdi dopo aver avuto come motto 'legge e ordine', oggi che siete al potere si sentite casta intoccabile. Il caso Delmastro è l'esempio di questa vostra convinzione di essere al di sopra della legge".
Anche Elly Schlein si rivolge alla premier Meloni: "Cosa le impedisce di far dimettere Santanchè? Come è possibile accettare in silenzio, dopo che Santanchè ha detto che del pressing di Fdi se ne frega, che lei e solo lei decide se dimettersi come se non esistesse una presidente del Consiglio?". E insiste: "Meloni è stata campionessa mondiale di richieste di dimissioni e oggi ha disertato quest'aula, come fa non vergognarsi della sua incoerenza, come fa a non rendersi conto di quanto sia vigliacco il suo atteggiamento di continua fuga da quest'aula e dalla realtà? Dove si è nascosta la premier? Forse sta registrando un altro video, un contributo da inviare a una convention fra motoseghe e saluti nazisti?".
Conte ribatte anche al passaggio 'tacco 12' della ministra: "Lei ha detto che odiamo la ricchezza, ma non dica baggianate, siete voi che avete fatto la guerra ai poveri, che odiate i poveri. Noi odiamo o meglio ancora contrastiamo, la disonestà". Una questione, quella dei tacchi e delle borsette, che fa sbottare Schlein: "Lei viene qui a difendere le borsette, chi difende gli italiani dalla bollette? Noi non siamo qui per fare un processo ma per porre una gigantesca questione di opportunità politica: davanti ad accuse così gravi, per non ledere le istituzioni, avrebbe dovuto dimettersi".
La segretaria del Pd si rivolge quindi alla maggioranza: "Speriamo in un sussulto della maggioranza e dei singoli parlamentari. Se oggi salvate Santanchè dimostrate che a voi interessa difendere i vostri più che difendere l'onore delle istituzioni. Questa non è difesa nazionale, è difesa tribale". Per Elisabetta Piccolotti che interviene a nome di Avs, "il problema non è la ricchezza della ministra, il problema è che quando si è ricchi e non si pagano" gli stipendi ai lavoratori e si umiliano "le persone più povere".
Anche Iv, Più Europa e Azione che non avevano sottoscritto la mozione di sfiducia, hanno comunque dichiarato il voto a favore in aula. "Noi sappiamo che la mozione di sfiducia non sarà approvata, ma chiunque si è accorto che la ministra Santanchè non è sfiduciata da coloro che hanno presentato questa mozione ma dalla sua stessa maggioranza, dalla premier Meloni", dice Davide Faraone di Iv. Per Azione Antonio D'Alessio spiega: "Le mozioni di sfiducia non ci piacciono" e "la ministra non è colpevole fino a prova contraria" ma "è il quadro complessivo che finisce con il restituirci una politica rispetto alla quale scivolano via situazioni che non consentono una azione della ministra libera di condizionamenti". Linea simile a Riccardo Magi di Più Europa: "Per noi Santanché dovrebbe dimettersi" non per le questioni giudiziarie, ma "perché ha inanellato una serie di fallimenti da ministro". Intanto in serata l'aula ha respinto la sfiducia con 206 voti.
Londra, 25 feb. (Adnkronos/Afp) - Il primo ministro britannico Keir Starmer ha confermato che ospiterà colloqui sull'Ucraina con gli alleati nel fine settimana, dopo essere tornato dall'incontro con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca. "Ospiterò diversi paesi questo fine settimana per continuare a discutere di come procedere insieme come alleati alla luce della situazione che ci troviamo ad affrontare", ha detto ai giornalisti.