“Dicevano che giocavamo a perdere. Invece giocavamo a vincere. E con Pertini abbiamo vinto. Oggi, per la prima volta nella storia, va al Quirinale un socialista”. Bettino Craxi tenterà di mettere il cappello sul Presidente Partigiano. Ma la verità è opposta: nel 1978, quando si è trattato di cercare il successore di Giovanni Leone, lui Pertini l’ha osteggiato finché ha potuto. E vi si è rassegnato soltanto in extremis. Pur di non aprire la strada all’ennesimo democristiano, o all’odiatissimo Ugo La Malfa. La campagna presidenziale di 35 anni fa si apre con sei mesi d’anticipo sulla tabella di marcia. Giovanni Leone se ne dovrebbe andare solo a dicembre, ma si dimette sei mesi prima, per mettere fine alla campagna politico-giornalistica delle sinistre. Il 1978 è forse l’anno più nero della Repubblica italiana: i grandi scandali, il nervosismo atlantico per l’ingresso dei comunisti nell’area di governo, il terrorismo che dilaga nelle strade, la strage di via Fani seguita dal sequestro di Aldo Moro, la spaccatura dei partiti tra il fronte della fermezza e quello della trattativa con le Br, e alla fine quella terribile Renault rossa parcheggiata in via Caetani, a metà strada fra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, con il corpo del presidente della Dc crivellato di colpi e rannicchiato nel bagagliaio.

La morte di Moro, candidato numero uno al Quirinale, con le drammatiche dimissioni del ministro dell’Interno Francesco Cossiga, è del 9 maggio. L’uscita di scena di Leone, del 15 giugno. I papabili per la successione sono il segretario Dc, Benigno Zaccagnini, il segretario repubblicano La Malfa, i socialisti di sinistra Francesco De Martino e Antonio Giolitti. I primi due portati dal fronte della fermezza (segreteria Dc, Pci, Pri), gli altri due da quello della trattativa, che ruota intorno al Psi. Ma nei primi tre scrutini – quelli che richiedono la maggioranza dei due terzi delle Camere – ciascun partito vota il proprio candidato di bandiera. É ormai la fine di giugno e nemmeno nelle successive votazioni l’impasse accenna a sbloccarsi: altre dodici fumate nere.

Il socialista e il compagno Berlinguer

Per ammazzare il tempo fra una tornata e l’altra, alcuni giovani deputati democristiani organizzano partitelle a calcetto in periferia e rientrano a Montecitorio con la sacca sportiva: tra questi, ci sono un tal Clemente Mastella e un certo Antonio Segni. Craxi, a questo punto, fa la voce grossa con Zaccagnini: “O un socialista (Giolitti, ndr) sale al Quirinale, o il Psi scende dal governo Andreotti”. I toni sono quelli perentori e ricattatori del miglior Ghino di Tacco. E gli altri partiti sembrano d’accordo con lui. Tranne la Dc, che tiene duro su Zac, e il Pri, tetragono su La Malfa. Il leader dell’Edera, come poi Pertini, fa finta di non ambire alla poltrona, e per affettare distacco si trasferisce per qualche giorno in Val d’Aosta annunciando: “Mi sono definitivamente allontanato dalla politica”. Salvo poi ripiombare a Roma non appena si comincia a fare sul serio. Enrico Berlinguer, che i socialisti li detesta (chiama Craxi “il gangster”), ha una sola preoccupazione: se socialista dev’essere il nuovo Presidente, che almeno sia il più lontano possibile da Craxi. Ecco così affiorare, a sorpresa, il nome di Sandro Pertini.

È dagli anni ’50, all’indomani della Resistenza, che questo anziano socialista savonese classe 1896 è considerato una vecchia gloria dallo stesso Psi: un monumento da venerare, ma purchè resti sul piedistallo e soprattutto chiuso in una teca, alla larga da incarichi partitici e governativi, al massimo da issare come una bandiera su una poltrona istituzionale di rappresentanza, come la presidenza della Camera dal 1968 al ’76. A quel punto, pare a tutti che il vegliardo possa ritirarsi in buon ordine. Pochi sospettano che la sua vera carriera politica sta appena per cominciare. Pertini piace ai comunisti per le stesse ragioni che lo rendono inviso a Bettino: predica il “ritorno ai rapporti unitari nella sinistra”, suo vecchio pallino, sferza la nuova generazione socialista, avversa la linea molle dei craxiani sul terrorismo ed è un alfiere della “questione morale” berlingueriana. Ne ha dato prova nel 1974, da presidente della Camera, prima respingendo l’aumento dell’indennità dei deputati (“Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall’inflazione… voi date quest’esempio d’insensibilità? ‘Io deploro l’iniziativa’, ho detto. ‘Entro un’ora potete eleggere un altro presidente della Camera . Siete 630, ne trovate subito 640 che accettano di venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo’…”).

E poi schierandosi dalla parte dei tre giovani pretori della sua Liguria Mario Almerighi, Carlo Brusco e Adriano Sansa – che avevano scoperchiato il primo scandalo dei petroli: i partiti e quasi l’intero Parlamento a libro paga dell’Unione Petrolifera in cambio di leggi fiscali di favore. Mentre politici e grande stampa attaccavano i “pretori d’assalto”, Pertini li ricevette a Montecitorio (ma nella lavanderia, perché gli uffici erano infestati di microspie, o almeno così lui pensava) e prometteva loro il suo pieno appoggio. E in effetti li difese pubblicamente, come in una memorabile intervista a Nantas Salvalaggio su “La Domenica del Corriere”: “Non accetterò mai di diventare il complice di coloro che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione. Non c’è ragione al mondo che giustifichi la copertura di un disonesto, anche se deputato. Lo scandalo più intollerabile sarebbe quello di soffocare lo scandalo. L’opinione pubblica non lo tollererebbe. Io, neppure. Ho già detto alla mia Carla: tieni pronte le valigie, potrei piantare tutto…Io spero che i documenti dei famosi ‘pretori d’assalto’ siano vagliati con rigore. Spero che tutto sarà discusso in aula, e nessuna copertura sarà frettolosamente inventata dai padrini dell’assegno sottobanco… Mi fanno pena i magistrati e i politici che cercano di tagliare le gambe ai pretori dell’inchiesta sullo scandalo del petrolio. Dicono che sono troppo giovani: ma da quando la giovinezza è un reato? Se mai è un sintomo esaltante e meraviglioso: significa che il Paese ha una riserva di coraggio e di onestà nelle nuove generazioni. E poi, mi creda: questi giovani (beati loro!) sono stati esemplari, rapidissimi. In tredici giorni hanno vagliato quintali di documenti. Hanno perduto ciascuno tre o quattro chili, mi dicono. Ma è quel sudore, quella fatica, che possono ora lavare le macchie dei piccoli e grandi corruttori. Nel mio partito mi accusano di non avere souplesse. Dicono che un partito moderno si deve ‘adeguare’. Ma adeguare a che cosa, santa Madonna? Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo. Meglio allora il partito non adeguato e poco moderno. Meglio il nostro vecchio partito clandestino, senza sedi al neon, senza segretarie dalle gambe lunghe e dalle unghie ultralaccate… Dobbiamo tagliarci il bubbone da soli e subito. Non basta il borotalco a guarire una piaga. Ci sono i ladri, gli imbroglioni? Bene, facciamo i nomi e affidiamoli al magistrato”.

Per questo, quattro anni dopo, non solo Craxi, ma anche la Dc storce il naso su Pertini: a parte l’età (81 anni suonati), il vecchio Sandro puzza di Fronte Popolare distante un miglio (anche se nel 1948 si era opposto all’alleanza Pci-Psi, ritenendola un tragico errore). Così il 2 luglio, nel tentativo di bruciarlo, Craxi lancia Pertini presentandolo come “il candidato di tutta la sinistra”. Il vegliardo però annusa la trappola e l’indomani è lui stesso, furibondo, a chiedere di non essere votato. Mossa geniale. Mentre tutti lo credono fuori gioco, lui – all’insaputa del suo partito – comincia a muoversi in ogni direzione per allacciare i rapporti con i vecchi amici (Alessandro Natta, Giorgio Amendola, La Malfa). Giolitti, intanto, tramonta, mentre sembra decollare La Malfa, simbolo vivente del compromesso storico dopo la scomparsa di Moro. Proprio per questo Craxi lo osteggia e, pur di sbarrargli il passo, ripesca Pertini. Anche Andreotti, per evitare che Sandro salga al Quirinale con i voti determinanti dei craxiani, convince la Dc ad appoggiarlo dopo una lunga serie di astensioni. Pertini, con l’aria di quello che non ci tiene, ostenta indifferenza. Ma non si perde un passaggio della partita a scacchi e segue ogni mossa di amici e nemici dalla sua bella casa in piazza Navona. Qui, il 7 luglio, lo raggiunge la notizia che il più è fatto. Non ha mai capito granchè di politica politicante, ma stavolta si gioca la partita da maestro. Diffidente, continua a tessere abilmente la sua tela, ma anche a fingersi rassegnato alla sconfitta. E, per rendere più credibile la sceneggiata, prepara i bagagli per le vacanze estive a Nizza che – lo sa benissimo – dovrà rimandare. Dire che l’8 luglio venga colto di sorpresa dall’annuncio dello scrutinio decisivo, sarebbe una bugia. Ma lui lo dice. Affermare che ha già pronto il discorso d’investitura sarebbe la verità. Ma lui lo nega. Mesi dopo rievocherà così quelle ore cruciali, con una dose di sfrontatezza pari soltanto alla simpatia: “Quando mi hanno offerto la presidenza della Repubblica, a 82 anni, io sono diventato pallido come un morto. Questi miei giovani compagni del Psi, invece, quando gli offrono una carica se la prendono senza batter ciglio. Comunque son sicuro che, dei miei 832 elettori, almeno la metà si sono già pentiti”.

L’elezione a sorpresa

Dunque l’8 luglio, al sedicesimo e ultimo scrutinio, Pertini raccoglie 832 voti su 995 (l’83.6%): la maggioranza più ampia mai raccolta fino a quel momento da un presidente della Repubblica italiana. Praticamente l’intero “arco costituzionale”, che taglia fuori soltanto il Msi. Il discorso d’insediamento, l’indomani, è un abile cocktail di antifascismo, resistenzialismo e “partito degli onesti”, con le nobili aggiunte di un ricordo di Moro, un onore delle armi a Leone e un fermo appello contro ogni cedimento al terrorismo. Tutti felici, contenti e plaudenti. Almeno finchè Pertini, uscendo dall’aula, non minaccia sia pure bonariamente: “Chi si illude che io duri poco, se lo levi dalla testa. Mia madre morì a 90 anni, e solo perché cadde da una sedia. Mio fratello ha felicemente raggiunto quota 94…”.

Indro Montanelli, che abita con la moglie Colette in un attico su Piazza Navona prospiciente le finestre della sua casa, gli invia un telegramma agrodolce di benvenuto sul Colle: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e che si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. Non ne farà granchè tesoro, Pertini, accompagnato da cori di giubilo ed esaltazione dei media, che fanno a gara a esaltare la sua biografia di socialista onesto nato a Stella (Savona), educato dai salesiani, eroe della Grande guerra, socialista e fin da subito antifascista tutto d’un pezzo, compagno di fuga di Filippo Turati, esule in Francia dove si guadagnò da vivere facendo il manovale (“ma il muratore lo fece un giorno solo, e quel giorno riuscì a farsi fotografare”, lo corbellava Nenni), arrestato in Italia nel 1929 e sbattuto in carcere con Gramsci e poi al confino fino al 1943, ardimentoso capo della Resistenza. Su altri particolari più controversi, come il ruolo nella fucilazione di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, o le scalmane all’indomani della Liberazione nell’attesa della rivoluzione socialista che per fortuna non venne, o ancora le lodi all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, gli agiografi sorvolano. Così come sorvoleranno sui molti strappi alla Costituzione che costelleranno la presidenza Pertini, inaugurando quel presidenzialismo strisciante a base di “esternazioni” a ruota libera, poi ampiamente sviluppato e istituzionalizzato da Cossiga, Scalfaro e – dopo la parentesi CiampiNapolitano.

La presidenza Pertini è un lungo terremoto durato sette anni. Nel Quirinale un po’ grave o lento lasciato da Leone & famiglia, o almeno dalla loro rappresentazione mediatica che vi ha aggiunto del suo, il vecchio Sandro porta odore di bucato: la sua onestà è unanimemente riconosciuta, la sua immagine di bonarietà rigorosa è quel che ci vuole per restituire un po’ di prestigio e di popolarità alle istituzioni. Il suo settennato non sarà mai sfiorato dall’ombra di uno scandalo e registrerà – tra i non pochi pregi – quello di aver rotto il quarantennale monopolio della Dc su Palazzo Chigi con la nomina dei due primi governi a guida laica: prima quello di Giovanni Spadolini (dopo un vano incarico a La Malfa), poi quello di Craxi (che si presenta al Quirinale in blue jeans, e lui lo rispedisce a casa a cambiarsi: “Vai, vai, ne riparliamo più tardi”). In più Pertini, diversamente da Leone, non tiene famiglia: non ha figli, e la moglie Carla Voltolina, donna schiva e bizzarra ai limiti della scontrosità, non metterà mai piede a Palazzo e non poserà mai da first lady, evitando di aggiungere altre dosi di sale e pepe a quelle che l’intemperante marito semina in giro per l’Italia e per il mondo. Perché lui, Sandro, è un gaffeur da competizione. Gaffes lungamente studiate a tavolino, le sue, come quelle di Mike Bongiorno, per apparire ancor più spontaneo, scomodo e vicino alla gente di quanto già non sia di suo. Il “nonno degli italiani”, assecondato e incoraggiato da una stampa conformista e da una classe politica che tenta di usarlo come foglia di fico (Guido Ceronetti definisce il fenomeno “papagiovannificazione”, e anche Montanelli non perde occasione per canzonare il suo voluttuoso presenzialismo mediatico), bacia migliaia di bambini, abbraccia decine di migliaia di madri e nonne, lacrima copiosamente a migliaia di funerali, intralcia i soccorsi in varie sciagure: dal pozzo di Vermicino al terremoto in Irpinia. E proprio nei giorni del disastro avellinese va in tv ad accusare, in un famoso messaggio alla Nazione, di collusione col sisma il governo da lui stesso nominato e la classe politica di cui ha sempre fatto parte.

Ma è questo anche il bello di “nonno Sandro”: avvicinare un’istituzione fino ad allora lontana e irraggiungibile, il Quirinale, alla gente comune che dei “politici” ha smesso di fidarsi da un pezzo. Anche perché Pertini, col suo pane al pane e vino al vino, dà l’impressione di credere a quel che dice. E, anche quando piange, di non farlo a comando. Piange nell’agosto 1980 in piazza Maggiore a Bologna, accanto al sindaco Renato Zangheri, per i funerali delle vittime della strage. Piange nel giugno 1984, quando si ritrova a Padova dove Berlinguer s’è appena sentito male nel famoso comizio. Arriva fra i primi in ospedale e, insieme a Tonino Tatò, si fa portare nella stanza dove il leader comunista è intubato alle macchine. Si fa allestire una stanza, ha un lieve malore ma non si muove di lì, ascolta i medici dire che non c’è più niente da fare, piange e conforta i famigliari: “Lo porto a casa io, come un fratello, un amico. Un compagno di lotta”. Si carica la bara del compagno Enrico sull’aereo presidenziale e l’accompagna ai funerali in piazza San Giovanni, il 13 giugno, con un milione di persone, ancora in lacrime.

Diplomazia a stile libero

Per converso, gl’incidenti diplomatici provocati dalle sue esternazioni pesudo-improvvisate non si contano. Confonde il Guatemala col Nicaragua. Imputa la strage di Sabra e Chatila agli israeliani anzichè ai falangisti libanesi. Tira in ballo l’Urss come mandante delle Br senza uno straccio di prova. Fraternizza con papa Wojtyla come se fosse il cappellano del Quirinale. Confida alla stampa di aver saputo da re Hussein di Giordania che il capo druso Jumblatt è un morfinomane. Annuncia il ritiro del contingente italiano dal Libano senza che il governo ne sappia nulla (“me l’ha detto coso”: che, per la cronaca, è il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini). Quando muore Berlinguer, trasforma i funerali in un mega-spot elettorale che frutta al Pci il sorpasso sulla Dc alle elezioni europee. Quando defunge il presidente sovietico Cernenko, non proprio un campione di democrazia, interrompe una visita ufficiale in Sudamerica per volare a Mosca a piangere sulla sua bara. E quando i controllori di volo Alitalia – ufficiali dell’Aeronautica – entrano in sciopero, anzichè farli arrestare come comandante delle Forze Armate per violata consegna, li riceve al Quirinale per avviare una mediazione col governo.

Egocentrico, estroverso, collerico, intollerante verso qualunque cenno di dissenso, Pertini si affaccia informale a ogni Capodanno nelle case degli italiani con la pipa e il caminetto accesi, menando fendenti a destra e a manca. Memorabile il discorso di fine 1981, l’anno della scoperta della loggia P2: “Questa P2 ha turbato, inquinato la nostra vita. Non mi interessa per ora se cada o non cada sotto il codice penale. Io guardo a un altro codice, che è il codice morale, il codice che ogni uomo, specialmente di ogni uomo politico, dovrebbe portare scritto nella sua coscienza. Ebbene, la P2 cade sotto questo codice morale. Vi è un proverbio che si usa dire: la moglie di Cesare non dev’essere sospettata, ma prima di tutto è Cesare che non dev’essere sospettato. E allora ogni sospetto devono allontanare dalla loro persona gli uomini politici: non può rimanere al suo posto chi è stato indiziato in questa trappola della P2. La P2 si prefiggeva di compiere atti contro la Costituzione, contro la democrazia e contro la Repubblica. E quindi coloro che ne facevano parte dovranno risponderne prima di tutto dinanzi alla loro coscienza, ai loro partiti e soprattutto dinanzi al Parlamento. Non vi può essere in questo caso alcuna comprensione e alcuna solidarietà. Ripeto quel che ho detto altre volte: qui le solidarietà personali, le solidarietà di partiti diventano complicità”.

Altre volte i fulmini di Pertini si appuntano contro contro i “suoi” stessi governi, costringendo poi il Presidente a precisazioni imbarazzate e a contorsionismi diplomatici “riparatori” con gli esecutivi offesi dalla sua furia fanciullesca. Un giorno il povero Maccanico, spinto dalle segreterie dei partiti dopo una delle dirompenti esternazioni dell’arzillo misirizzi, gli telefona a Selva di Val Gardena dov’è in vacanza: “Forse, Presidente, se mi posso permettere, troppe interviste potrebbero danneggiarla”. E subito viene investito dalla trillante vocetta dall’altro capo del filo: “Io parlo con chi voglio, di cosa voglio, quante volte voglio!”. Epico il burrascoso licenziamento, dopo soli due anni, del suo capufficio stampa Antonio Ghirelli, grande giornalista napoletano: accade nel 1980, quando una nota del Quirinale annuncia la richiesta di dimissioni del ministro dell’Interno Cossiga, accusato di favoreggiamento nei confronti di Marco Donat-Cattin, figlio del leader democristiano Carlo e terrorista di Prima Linea, sfuggito all’arresto grazie a una soffiata. Ghirelli rivelerà anni dopo di aver offerto le proprie dimissioni d’accordo con Pertini, in seguito alla solita sfuriata del Presidente, per tutelare un giovane collaboratore che aveva vergato il comunicato al posto suo. L’ultima catastrofe è la grazia concessa in tutta fretta da Pertini a Flora Pirri Ardizzone, una terrorista rossa condannata per associazione sovversiva, ma molto speciale: è la figlia di Ninni, seconda moglie di Emanuele Macaluso. E molti commentano: cosa non si fa per gli amici. Ne vien fuori un putiferio e il segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico, è costretto ad addossarsene tutta la colpa. Nel 1985, a fine settennato, i partiti esausti respingono al mittente le perentorie avances dell’arzillo ottantottenne per essere riconfermato. E votano in massa per Francesco Cossiga. Il mite, il taciturno, il riservato, il notarile Cossiga. Insomma, l’Antipertini. O almeno così credono. Se ne accorgeranno.

da Il Fatto Quotidiano del 15 aprile 2013

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