La crisi che l’intero pianeta sta attraversando, impone un ripensamento del modello di sviluppo così come lo abbiamo inteso fino ad oggi e che vede ancora un gran numero di politici e di economisti interessati a riproporlo, acriticamente. Il dibattito su crescita e decrescita, sviluppo sostenibile, green e blue economy, grandi opere, prescinde spesso da un’attenta analisi di quelli che sono i costi e i benefici e, più in generale, da un ragionamento sulle risorse materiali e monetarie che abbiamo a disposizione, oltre che sulle conseguenze delle scelte nel lungo periodo per la nostra società e per l’ambiente in cui viviamo.
Il confronto asimmetrico cui abbiamo assistito la settimana scorsa a “Ballarò” tra Davide Serra e Vandana Shiva, è in primo luogo tra una visione maschile e una visione femminile. Una nuova politica passa attraverso l’inclusione di un nuovo punto di vista, quello femminile. Abbiamo bisogno di più politica promossa dalle donne e non è casuale che le cose più interessanti e più nuove siano state dette da una donna. Tuttavia la classe dirigente, prevalentemente maschile e pur giovane assai ancorata alla conservazione, continua a guardare con sufficienza, quasi con fastidio e supponenza, alle risorse femminili, tanto che in quel confronto anche la visione di una figura autorevole come Vandana Shiva, è stata liquidata come ingenua, antistorica e antiprogressista. In realtà si sono confrontate due idee antitetiche di mondo: una, quella di Serra, già conosciuta, già sperimentata e già fallita e un’altra che prospetta un nuovo modello di sviluppo, una nuova economia. Le affermazioni di Vandana Shiva, oltre ad avere un maggiore valore scientifico rispetto a quelle di Serra – che propugna un mercato finto e drogato basato sulla speculazione finanziaria – ridanno cittadinanza ai beni comuni come la terra e l’acqua.
Così, quando parliamo di occupazione e di lavoro, dobbiamo sforzarci di capire che scegliere tra due modelli di sviluppo significa optare tra la possibilità di offrire posti di lavoro veri per molti oppure una rendita di posizione o un interesse economico ristretto a per pochi. Il caso delle infrastrutture ne è un esempio significativo.
Se si decide di costruire una galleria per la Tav che costa 8 miliardi di euro, devo sapere che per ogni miliardo investito posso garantire lavoro a sole 300 persone. Quando oggi, sulle stesse infrastrutture, sulla mobilità, sulle smart cities, sulla necessità di ristrutturare porti e linee ferroviarie esistenti in funzione di un trasporto delle merci più rapido ed efficiente, ogni miliardo di euro di investimento vale ben 16.000 posti di lavoro. Quindi i 300 posti che mi garantisce la grande opera potrebbero essere moltiplicati per 50 e più volte se solo si decidesse di investire le stesse risorse in tante piccole e medie opere necessarie, nella manutenzione del territorio, nella messa in sicurezza delle aree inquinate…
Non è un caso e non è banale scegliere l’una o l’altra priorità. Questo è un altro modello di sviluppo possibile e su questo dobbiamo avere il coraggio di combattere una battaglia con i numeri alla mano, anche ragionando di Pil. È sbagliato mettere in contrapposizione ontologica crescita e decrescita, ma è fondamentale prospettare un riequilibrio nella crescita e un diverso parametro di riferimento per il nostro mondo, più equo e sostenibile. Ci si accorgerà che la crescita del Pil, a parità di investimenti, sarà superiore dando lavoro a 16.000 persone piuttosto che a 300, perché si incrementa sicurezza sociale e un’economia più sana e con un benessere più diffuso. E’ l’altra faccia della medaglia, quella nascosta, che invece va vista per intero.