Da oltre un mese è in corso negli Emirati Arabi Uniti il più grande processo di massa contro il dissenso: 94 imputati, otto dei quali giudicati in contumacia, rischiano fino a 15 anni di carcere per violazione dell’articolo 180 del codice penale che proibisce la fondazione, l’organizzazione e l’attività di qualunque gruppo miri a rovesciare il sistema politico del paese. Tra gli accusati ci sono gli affermati avvocati per i diritti umani Mohamed al-Roken e Mohamed al-Mansoori, ma anche giudici come Mohammed Saeed al-Abdouli, docenti universitari come il professor Hadef- al-Owais, e leader di gruppi studenteschi.
Molti degli imputati fanno parte di Al-Islah (Associazione per la riforma e la guida sociale), un gruppo non violento che per molti anni ha promosso un dibattito politico pacifico e che chiede una maggiore fedeltà ai principi islamici. Secondo i giornalisti locali che assistono alle udienze, la pubblica accusa sostiene che gli arrestati abbiano fondato un’organizzazione parallela, Dawat al-Islah, che ha scopi e ideologia differenti.
Ciò che è consentito ai giornalisti locali e alle associazioni vicine alle autorità, come l’Associazione per i diritti umani negli Emirati – per la quale “il giudice ha dato agli accusati il diritto di parola e di fare delle richieste tramite gli avvocati difensori” e “gli accusati erano in buone condizioni e non c’erano prove di tortura” – è invece vietato ad altri.
Prima del 4 marzo, giorno dell’apertura del processo, è stato negato il visto d’ingresso negli Emirati ad Ahmed Nashmi al Dhafeeri, osservatore di Amnesty International, e a Noemie Crottaz, rappresentante dell’organizzazione Alkarama, che ha sede a Ginevra. Le autorità hanno impedito l’entrata nel paese anche ad altri osservatori internazionali e a giornalisti della stampa estera, nonostante questi avessero rispettato le procedure e fornito i documenti richiesti.
È successo anche di peggio: l’arresto, il 21 marzo, di Abdulla al-Hadidi, figlio di uno dei 94 accusati. Dal 4 marzo, al-Hadidi aveva assistito a quattro udienze, commentandole con alcuni tweet e su alcuni siti web. È stato condannato a 10 mesi per violazione dell’articolo 265 del codice penale, per aver pubblicato dettagli della sessione di un processo “senza onestà e in cattiva fede”, con l’aggravante della violazione dell’articolo 46 della legge del 2012 sui reati informatici, che fa dell’uso di Internet un fattore aggravante in un reato.
Cosa non si deve sapere del processo di massa in corso negli Emirati Arabi Uniti? Alcuni fatti gravi.
Sessantaquattro dei 94 imputati sono stati tenuti in detenzione preventiva anche per un anno. Molti di essi non hanno potuto incontrare gli avvocati per mesi. Almeno uno di loro, Ahmed al-Suweidi, è stato sottoposto a sparizione forzata. Nell’aula del tribunale aleggia il sospetto di tortura.
In tutti i modi possibili, il processo e la sorte degli imputati vengono seguiti da sette organizzazioni per i diritti umani: Alkarama, Amnesty International, la Rete araba d’informazione sui diritti umani, l’Istituto di ricerche sui diritti umani del Cairo, il Centro per i diritti umani del Golfo, Human Rights Watch e la Federazione Internazionale per i diritti umani.